Questo breve articolo, che non ho saputo trattenermi dallo scrivere di getto, è uscito ieri sulla pagina di apertura dell’edizione romana di Repubblica col titolo – un po’ da clochard, diciamolo, anche se del tutto veritiero – “Io , lei e il cane cacciati dalla panchina”.

A 12 anni dall’uscita di “Panchine. Com uscire dal mondo senza uscirne” nella collana contromano di Laterza, l’anno scorso è uscita la 6a ristampa del libro nella collana, sempre di Laterza, i Robinson, con una copertina un po’ “psichedelica”. E devo dire che c’è stata una nuova ondata di lettori, quindi lettere e di amicizie virtuali da parte di nuovi cultori (spesso fotografi) di quel bellissimo oggetto, quella meravigliosa dimensione che è la panchina. La cui libertà (e soprattutto gratuità, sospetto) non cessa però, così come di sedurre, anche di infastidire i rigidi custodi di un’idea di controllo sociale che non ha niente di poetico, e che anzi ci fa un po’ paura…
PANCHINE & CONTAGIO (da la Repubblica del 16/04/2020)
Non so gli altri, ma io ho la sensazione che qualunque cosa scriva sia ormai del secolo scorso, di prima del virus e dell’epidemia, prima delle attuali forme di “distanziazione sociale” – dell’immenso spazio tra la gente che serve non a trattenere e condividere le esperienze, ma ad annullarle, dissolverle, come se nient’altro più contasse che mantenere la distanza, e la verità di una solitudine nascosta. Mai come oggi insomma ho l’impressione che nulla sia al suo posto.
“Non lo sa che è vietato sedersi su una panchina? Dovete tornare subito a casa!”, così ci ha apostrofato ieri pomeriggio un poliziotto, mentre io, Stefania e il cane (siamo conviventi in casa, non solo sulla panchina) facevamo una pausa dalla passeggiata. Di fronte alla nostra silenziosa esitazione, il poliziotto ha ripetuto la domanda con maggiore impazienza.
No, non lo sapevo che stare su una panchina in silenzio, da soli o in due, fosse vietato. E per quanto mi sforzi non vedo alcun nesso tra il proibire la nostra pausa contemplativa e l’obiettivo verso cui dovrebbero convergere i divieti antivirus di “distanziazione sociale”: interrompere o eliminare il contagio. A dirla tutta, trovo che sedersi su una panchina (da soli, non in gruppo) sia da sempre la più esplicita ed educativa delle pratiche di distanziazione. Il tramutarsi della panchina, suo malgrado, da oggetto poetico a oggetto sociale, da zona franca a terreno di rappresaglie (sociali), ha fatto assurgere la panchina a simbolo non solo di un passeggiare da fermi, dell’otium contemplativo negato dal neg-otium (non a caso i negozi sono chiusi per virus), ma di un delicato, gratuito esercizio di libera cittadinanza. “La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. È l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città e lo spazio.”
Ora, non la farei tanto lunga se non fossi il tizio che ha scritto ormai più di dieci anni fa un libro sulle panchine, da molti lettori definito un “manuale di resistenza umana”. Per esempio, che cosa c’è di più intimo e al tempo stesso distante, di libero e forse per questo fastidioso, del leggere su una panchina? Senza le panchine non esisterebbe parte della letteratura del Novecento, forse nemmeno certi scrittori. Non facciamo della distanziazione sociale il pretesto per cancellare le ultime esperienze possibili. Non corriamo il rischio che, passati (o “compiuti”) i contagi, restino in piedi soltanto i divieti.
P. S. Pur essendo in progress, nella sezione libri di questo sito troverete una buona parte delle recensioni al libro, spesso molto interessanti se non più belle del libro stesso.