(l’Unità, 7 aprile 2004)
La seconda di queste nostre conversazioni sul linguaggio è con Mario Lavagetto, uno dei più insigni studiosi italiani (apprezzatissimo all’estero) di Teoria della letteratura (a lungo insegnata all’Università di Bologna). Lavagetto è specialista dei rapporti tra psicanalisi, letteratura e linguaggio, e in particolare del “mentire”. I suoi studi sulla menzogna (e il suo confronto con la finzione, già oggetto di meditazione nelle Passeggiate di Rousseau), attraverso il confronto con la logica e la filosofia del linguaggio (Wittgenstein, Goodman, Popper), hanno agevolmente mostrato che, a rigore, “mentire” è uno dei sinonimi del linguaggio, e le menzogne non sono prive di valore euristico e conoscitivo. Ma riserviamo questo argomento all’ultima parte della nostra chiacchierata. Da sùbito, invece, la nostra preoccupazione è unanime quanto allo svilimento del linguaggio nell’attuale crisi della politica, il suo essere insieme termometro e posta in gioco di una possibile deriva della civiltà.
“In Italia scontiamo una lunga dimenticanza di un problema la cui posta in gioco è altissima”, dice Mario Lavagetto. “Il linguaggio diventa sempre più opaco e povero di informazioni. Già Tullio De Mauro molti anni fa, quando faceva i “libri di base” per gli Editori Riuniti, si poneva questi problemi, analizzando i linguaggi e proponendo libri ad alta qualificazione capaci di offrire strumenti per affrontare temi e problematiche, anche politiche, e decodificarne il linguaggio. Oggi con maggior forza occorre porsi il problema, di fronte a un linguaggio politico così semplificato e disarticolato quale quello poi passato nel berlusconismo.”
In Francia gli intellettuali hanno intrapreso una lotta politica ”contro la guerra all’intelligenza”, cioè contro la semplificazione, anche linguistica, e contro i tagli alla cultura e all’educazione. Non trovi che essa sia e sia stata, purtroppo, praticata anche a sinistra?
“Sì, e sono molto convinto del fatto che Gramsci avesse perfettamente ragione quando, nel 1918 o ‘19, sosteneva che è una forma di inganno fornire immagini assolutamente semplificate di problemi complessi. Il problema vero, culturale e politico, che un partito di sinistra deve porsi, è quello di affrontare i problemi nella loro complessità, senza banalizzarli, pena il renderli incomprensibili e incontrollabili. Le forze di sinistra sono state molto carenti in questo. Una maggiore attenzione per la scuola sarebbe stata ed è fondamentale. Sono convinto che la produttività sociale, il suo peso e il suo significato, siano inversamente proporzionali al livello gerarchico della scolarizzazione. La vera scommessa sul linguaggio era ed è a livello elementare e medio, dove si doveva agire già da tempo. Quando si arriva all’università, i giochi sono già fatti. Con questo non dico beninteso che bisogna inseguire il modello accademico del linguaggio. Ma il momento nevralgico è da identificare nei primi anni di istruzione, e sul piano del linguaggio all’università ci si trova di fronte a un prodotto già finito… C’è stata, c’è ancora, una sordità della sinistra al problema del linguaggio, che il berlusconismo fa oggi esplodere.”
Non è stato sottovalutato anche il problema del consumo televisivo (in pratica, Canale 5), che a sua volta dissimula un analfabetismo, primario o “di ritorno”, del pubblico?
“De Mauro diceva che la Tv ha avuto una funzione unificante per la lingua italiana, diffusasi in modo molto frammentario rispetto alle altre lingue europee e con una forte connotazione letteraria. In linguistica si dice che l’italiano letterario abbia una “velocità di deriva” molto più bassa rispetto alle altre lingue. D’altra parte, un italiano di media cultura è capace di leggere la letteratura dei primi secoli, a differenza di un francese o di un tedesco. Ma questo perché l’italiano è sempre stata una lingua impermeabile agli apporti dal basso, e iper-letteraria. Se le analisi di De Mauro sono giuste, all’epoca dell’unità d’Italia c’era solo un 1% di italofoni. Accanto a questo dato, un altro dato non approssimativo è che nel 1964, secondo un censimento computo nella provincia di Parma, il numero di analfabeti superava di gran lunga quello dei laureati, e la maggioranza era comunque ferma alla licenza media inferiore. Tutto questo è specchio di una alfabetizzazione stentata e tardiva. Ma la Tv, unificante nel linguaggio, ha creato una non-lingua, con una capacità bassissima di definizione… Mi vengono in mente i vecchi dizionari nomenclatori, che di ogni oggetto davano finestre o porte con definizioni di ogni singolo dettaglio. Oggi viceversa un ragazzo sarebbe incapace di definire l’oggetto in tutte le sue specificazioni. Il linguaggio impoverito a 200 parole è un fatto drammatico, non aiuta nessuno nella vita quotidiana, e soprattutto è inabile a stabilire una reale comunicazione, ancor meno con un interlocutore politico. Quando ero nel P.C.I., e insegnavo in Sardegna, nei primi anni ’70, vissi lo choc di trovarmi di fronte a una realtà che non controllavo linguisticamente, e anche se sapevo gestire un maggior numero di parole rispetto agli altri, restavano inutili per stabilire un contatto tra me e chi mi stava di fronte… Insomma, questa del linguaggio dovrebbe essere davvero una frontiera politica per i partiti della sinistra. Parlare di ecologia del linguaggio è una scelta importante, mi auguro chei politici leggano queste interviste…”
Cosa potremmo suggerire ai politici di sinistra per renderli più consapevoli del linguaggio, più convinti e convincenti?
“Il problema è difficilissimo da risolvere, certo non abbiamo ricette. Cito ancora Gramsci, il fatto che un argomento complesso non può diventare semplice se non perdendo la sua identità o tramite una sua contraffazione. I politici di sinistra hanno il dovere di sforzarsi. Per esempio, ciò che apprezzavo molto in Cofferati era l’apporto didascalico, il suo voler confrontarsi con temi e problemi politici senza rinunciare a dire, a spiegare, anche senza la battuta strappa-applausi. Sul piano linguistico, la sensazione di fondo che danno invece i politici di sinistra è quella di sembrare complici dei loro avversari, ciò che Cofferati rifiutava scrupolosamente. Non è questione di avere il moschettone in mano, ovviamente, ma di rispettare le distanze. Invece è come se, al di là di tutto, ci fosse un altro livello di linguaggio con cui i politici di sinistra vanno d’accordo coi loro avversari, di cui condividono insomma il linguaggio, contro i loro stessi elettori e simpatizzanti. Qualcosa come un lessico famigliare. Come se una cosa venisse detta all’ascoltatore, ma ci fosse un altro livello di linguaggio in cui si anniderebbero le connivenze. Se soltanto c’è, esiste questa percezione, significa che viene commesso un errore madornale da parte della sinistra. Magari non vogliono, ma devono rendersi conto che questa percezione scatta… Mi viene in mente che Enrico Berlinguer, con tutti i suoi difetti, non dava mai questo tipo di impressione.”
Forse anche per via della sua eticità (all’opposto di quella “autonomia della politica” che sembra dominare oggi), e che si mostra nel linguaggio…
“Sì, dopo Berlinguer si direbbe che la politica sia diventata un linguaggio specializzato, un’altra lingua, le cui traduzioni sembrano sempre imperfette. Ed è questo che andrebbe assolutamente estirpato”.
Parliamo del mentire, che è il tuo filone di studi privilegiato nell’ambito della teoria della letteratura. Come spieghi la “bugia”?
“La bugia come microorganismo linguistico semplice può aiutare a spiegare qualcosa di linguisticamente complesso. Puoi accorgerti che qualcuno sta mentendo, ma questo non ti fa scoprire la verità. Oppure può essere che il tuo errore o menzogna, attraverso cui parli, possa guidare alla fine alla scoperta della verità. Ho sempre pensato che avesse ragione Lacan quando diceva che per mentire bisogna sapere moltissime cose, e mostrare il minor numero possibile di crepe. Per una buona menzogna occorre avere memoria, conservare traccia di ciò che si è detto, per non cadere in contraddizioni… Tutto questo, molto succintamente, fa parte del panorama degli studi sul mentire. Ma oggi ci troviamo di fronte a qualcosa di singolare: la memoria oggi, per mentire, non è più necessaria, anzi. La massa di informazioni, il flusso continuo di conoscenze, valgono oggi la distruzione dell’archivio, ciò che permette a uno come Berlusconi di cambiare versione più volte in 24 ore, contando sull’“effetto gomma” della massa di informazioni che circola, e che equivale alla distruzione della memoria. L’ultima informazione estirpa la precedente, un po’ come quando Freud spiegava il nastro magico (o lavagna magica), in cui ogni scrittura è cancellata per far posto alla nuova, e su cui al massimo restano tracce mute di iscrizioni. Ho letto di recente che si vorrebbero ricostituire gli archivi della Stasi, il servizio segreto dell’ex Germania Est, carte sbriciolate, distrutte, ma i cui frammenti si possono rimettere insieme con un sistema costosissimo (svariati milioni di euro). Resta da chiedersi se, una volta rimessi insieme, essi diranno la verità… Ma succede quotidianamente: le parole non sono quadratini di carta, e domani non si potranno re-inserire in un programma, perché le parole non registrate si prestano a ogni ambiguità e incertezza. Una delle cose che ci hanno insegnato i filosofi del linguaggio è che non esiste nessuna marca di verità, nessuna verità del linguaggio in sé (come scrive Wittgenstein nel Tractatus: “la verità o a falsità delle proposizioni non-logiche non può essere riconosciuta basandosi soltanto sulla proposizione”), e quindi l’unico modo di controllare la veridicità logica di un’affermazione è quello di confrontarla con la realtà. Occorre insomma rendersi conto dell’opacità naturale del linguaggio: esso non è stato inventato per rendere trasparente il pensiero dell’uomo, come già diceva Wittgenstein. La trasparenza del pensiero richiede strategie per ottenere la comprensibilità e la comunicazione. Il linguaggio è un lavoro…”
“Ecco, questo possiamo dire ai politici. Noi che scriviamo sappiamo, conosciamo la fatica del linguaggio, della scelta di una rosa di possibilità, parola per parola; in funzione di valori espressivi se scrivi un romanzo, cioè di un’opacità ricercata, o di una trasparenza argomentativa se scrivi dei saggi. Noi che conosciamo il lavoro semantico dell’ambiguità, che sappiamo trattarla (anche metalinguisticamente, anche prendendone le distanze) possiamo richiamare i politici e gli altri “professionisti della parola” alla responsabilità. Dire loro che devono sentirsi responsabili di ogni parola che dicono, anche la più piccola. Come ha scritto una volta Roland Barthes, sarebbe già molto se uno sapesse rispondere di ognuna delle parole che sta dicendo o scrivendo, sapendola controfirmare…”
Beppe Sebaste