
“Tu es adorable”
Non si è più gli stessi dopo la morte di Jean-Luc Godard.
Come fu dopo averlo incontrato, anche solo come lettore e
spettatore dei suoi film. Il solo vederlo, la sua mimica,
produceva adrenalina. Poesia e adrenalina, come solo i
Maestri. Tutto in lui era insegnamento e humour, e sfacciato
conflitto. Provocazione, gioco, e un inesauribile “tutto
questo” insieme, e ancora poesia e adrenalina. Il solo
nominarlo provocava in me una grande eccitazione, come
partire per un viaggio. Parlarne o vederlo sullo schermo di
un cinema era come acquisire una seconda memoria,
un’estensione di memoria da connettere alla prima. In tutti i
casi, senza Godard anche solo la mia la mia vita di lettore sarebbe stata molto più povera.
Negli anni passati a Ginevra – il mio primo esilio svizzero
– scrissi il mio primo vero libro, Café Suisse e altri luoghi di
sosta, edito da Feltrinelli nel 1992. Racconti brevi, brevissimi.
A me sembrava un libro godardiano, o almeno volevo che lo
fosse, con i disegni di Cathy Josefowitz. La generosa quarta
di copertina la scrisse Gianni Celati.
Quella che segue è l’ultima pagina (135) di quel libro, Café
Suisse:
(…)
Adesso non piove più, e dalla finestra aperta si respira un buon
odore. Vedo il corpo nudo di Suzan riflesso nel vetro, tra le luci di
Carouge e quelle più lontano di Petit-Lancy. È una notte limpida.
Suzan mi ha raccontato di essere stata ospite da di antroposofi tedeschi,
dove si è riposata e ha pensato. Dice che ci dovremmo abituare all’idea
di lasciarci ma che adesso dobbiamo piantarla di lasciarci per finta. Io
ho cominciato a scrivere un nuovo racconto. Una storia tutta inventata,
parla di Jean-Luc Godard.
Quando penso a Godard, vedo qualcuno che non può restare fermo.
Penso ad esempio a un uomo in motocicletta con il casco e gli occhiali.
Oppure dentro un’automobile, con le mani sullo sterzo e il motore
acceso. Se lo immagino senza automobile e senza motocicletta, allora lo
immagino mentre sta camminando, non che corre in falsetto come l’uomo di un suo film, semplicemente che muove dei passi e non ha il
tempo di fermarsi a parlare. Se parla, allora lo immagino in procinto
di smettere, poi di salutare con dei gesti alzando il piede destro per fare
un passo. Se proprio è seduto, lo immagino allora che sta per alzarsi e
dire buongiorno, per accomiatarsi facendo tanto di cappello.
L’ultima scena del film a colori che abbiamo visto stasera mostra un
regista con gli occhiali dentro un’automobile col motore acceso. Egli
invita a gesti e a parole una donna in piedi sulla neve a salire sull’auto.
“Non fare storie”, le dice alla fine aprendo la portiera. Lei sale e la
macchina parte rombando. Intorno alla strada la campagna è coperta
di neve. Scendono i titoli di coda (…)
Avrei aggiunto:
Quando penso a Godard, io vedo quasi sempre un uomo
scanzonato, nervoso e intelligente, per strada con una
cinepresa in mano (se è in piedi) o un giornale aperto (se è
seduto a tavolino), per strada con una cinepresa in mano
(se è in piedi), o in piedi davanti a una lavagna, sciolto e
elastico, un pezzo di gesso tra le dita per scrivere sulla
lavagna come un bravo insegnante di politica e antropologia,
a volte di dogmatismo e di estetica, di onesta intolleranza.
Scrivere cioè di come
“cultura=regola, arte=eccezione,
ed è proprio della regola
volere eliminare l’eccezione”.
Frase adrenalinica, anche quest’ultima, che sintetizza
buona parte della sua intelligenza e del suo impegno.
Insomma, non mi sarei mai innamorato di una donna che
non fosse profondamente, sfacciatamente innamorata di
Jean-Luc Godard.