Per Luciano Bianciardi, eretico e libero

Bianciardi-min (1)Questo è quello che direi stamattina alla Fiera “Bellissima” dell’editoria indipendente e non-allineata che si svolge a Milano in via Piranesio (oggi è l’ultimo giorno), nell’incontro previsto su Luciano Bianciardi, che di non allineamento (nemmeno a se stesso) era maestro esemplare. Quanto all’indipendenza degli editori avrebbe senz’altro chiesto: indipendenti da chi? da che cosa? (Se ne avessi il tempo, enuncerei brevemente in proposito le ragioni per cui un anno fa annunciavo la mia pubblicazione on line senza editori (“indie”) del mio ultimo romanzo, Fallire, con queste frasi). Ma ora spazio a Bianciardi. Questi che seguono sono i miei pensierini da sviluppare sulla sua splendida eretica libertà.

 

L’anticonformismo, per non dire il dissenso, non è esattamente una specialità italiana. Luciano Bianciardi, scrittore grossetano emigrato a Milano e morto prima di compiere quarantanove anni nel 1971, non era solo anticonformista che non si allineò mai a nessun canone, neppure a se stesso, ma uno degli spiriti più autenticamente e dolorosamente liberi che abbia attraversato le nostre lettere. Quello che in America enunciavano poeticamente Kerouac o Ginsberg contro il grande Moloch, contro la spirale del “produci-consuma-crepa”, Bianciardi lo diceva negli stessi anni col suo realismo ironico.

Come scrittore è il padre di tutti gli spostati e gli scomodi, quelli che non trovano facilmente (o non cercano più) spazio nelle case editrici sottomesse ai criteri di vendibilità e di semplificazione televisiva della narrativa – equivalente dei politici che prima di enunciare un’idea o una proposta fanno un sondaggio di opinione.

Quando dieci anni fa uscì il l’Antimeridiano delle sue opere edito da Isbn ed Ex Cogita, mi sono chiesto se molti di quelli che lo lodavano sui media avrebbero fatto lo stesso trovandosi di fronte a Bianciardi o a uno dei suoi libri imprevedibili. La sua celebrazione postuma mi faceva pensare infatti all’epoca dei primi festival di poesia in Italia, quando signore e signori della buona società evocavano i poeti “maledetti” (“ah, Rimbaud!”): ma se uno come Rimbaud (o come Gregory Corso) si fosse presentato alla loro porta, ubriaco e con le scarpe infangate, avrebbero di sicuro chiamato la polizia.

Bianciardi, che è stato forse l’unico scrittore beat italiano (tradusse tra gli altri Henry Miller), ha sfidato i tabù che fondano tutt’oggi il consenso nella nostra società: la famiglia (che lasciò per una convivenza a Milano con Maria Jatosti), il sesso, il denaro, la povertà (parlarne è considerato oggi più osceno del sesso), il lavoro (tema della trilogia che culmina nel 1962 ne La vita agra, preceduta da Il lavoro culturale, 1957, e l’Integrazione, 1960), la politica (o il silenzio sulla politica), l’editoria (anche quella “di sinistra”), il successo, e perfino l’istituzione morale, culturale e economica più ambita, il Corriere della Sera: Bianciardi rifiutò l’invito di Indro Montanelli a pubblicarvi, dicendo che non faceva per lui. Si mise invece a scrivere sul Guerin sportivo, Le Ore, Playmen etc.

Bianciardi non era solo libero, era un grande innovatore: chi altri prima di lui avrebbe scritto una biografia dei minatori maremmani morti per sottrarli all’anonimato, in un percorso letterario a ritroso, da personaggi a persone? Inventò il bookgrossing guidando un bibliobus nelle campagne grossetane, prestando – cioè regalando – libri ai contadini. Diventato un po’ famoso con La vita agra, stroncò le aspettative di un mercato editoriale che desiderava altri romanzi anarchici e ribelli scrivendo romanzi sul Risorgimento italiano. Anche La vita agra narra un tragitto non scontato: dalla quasi parodia del terrorismo – l’idea del protagonista di vendicarsi a suon di bombe sul “Torracchione” di Milano, ovvero la sede della Montecatini, responsabile della strage di minatori maremmani nel 1954 con lo scoppio di un grisù – alla consapevolezza che l’unica rivoluzione possibile, l’unico cambiamento, può e deve avvenire “in interiore homini”, cioè nelle coscienze.

Leggendo Bianciardi si resta turbati dall’anticipazione cruda dell’infelicità in cui ci dibattiamo oggi. I suoi scritti esprimono la consapevolezza che la vita non è senza senso perché è misera (e quindi migliorabile secondo i progressismi incrociati di destra e di sinistra), ma è miserevole proprio perché è senza senso, e questa sua insensatezza non è data fatalmente dal “mondo della tecnica”, come discettavano i filosofi, ma dalla logica del profitto fine a se stesso, capace di estirpare ogni senso anche in chi ne tira le redini (anche i manager “tagliatori di testa” hanno prima o poi la testa mozzata). Bianciardi parlava di ciò di cui ancora oggi è difficilissimo dire: il lavoro, i soldi, il bisogno economico, l’alienazione, la vita ontologicamente precaria, quell’evidenza delle cose della vita che i politici non sanno più dire, e che è paradossalmente delegata ai comici.

Il Moloch descritto da Bianciardi che fagocita ogni critica e annulla ogni avversario è il cosiddetto “miracolo” economico italiano, dove nella futura capitale “da bere” nascono anche i pretesi luoghi di conflitto culturale e politico, come quella “grossa iniziativa” descritta ne L’integrazione, ovvero la fondazione della casa editrice Feltrinelli, cui Bianciardi partecipa con iniziale entusiasmo e da cui venne licenziato per “scarso rendimento” – in realtà, scrive, perché “strascicava i piedi” quando camminava. È l’inizio degli anni ‘60 del Novecento, l’epoca dei primi precari intellettuali, i collaboratori esterni, i lavoratori “cognitivi”, come si dice oggi, cioè occasionali, terziari, anzi, scrive Bianciardi, “quartari”, che “non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura”. Così descriveva Bianciardi oltre mezzo secolo fa la “società del benessere”: “La gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare”, e che per di più “si sentono privilegiati”: “neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri”.

A quell’epoca la pubblicità era ai suoi albori, e nessuno si faceva il lifting al volto. Eppure Bianciardi presagiva che le leggi estreme del consumismo e la società dello spettacolo si sarebbero estese e avrebbero modellato la società italiana: “Se continua il miracolo, fra vent’anni tutta l’Italia si ridurrà come Milano”.