(l’Unità, 18 ottobre 2002)
E’ ormai chiaro che alcune categorie sociopolitiche sono scadute. La crisi della politica e della sinistra sono evidentemente aspetti di una crisi della “re-pubblica”. Il ritorno, nella filosofia politica, del raffinato (spinoziano) concetto di “moltitudine”, che nel Seicento si opponeva a quello di “popolo”, presuppone che anche la vecchia distinzione tra sfera pubblica e privata non tenga più: è nel cosiddetto “privato” (privato di voce e di appresentanza “politica”) che si era nascosta la scomoda e non controllabile moltitudine. In Francia continuano le reazioni alla pubblicazione del diario di Sylviane Agacinski, filosofa e moglie di Lionel Jospin, registrate da Le Monde, che sull’esternazione “scandalosa” dell’intimità della politica ha interpellato docenti e specialisti. Diagnosi: l’opposizione di singole persone sta sostituendo oggi il dibattito politico. Con altre parole, chiare soprattutto oggi in Italia: l’opinione pubblica è eminentemente privata. Qualche mese fa, prima delle imponenti manifestazioni di protesta della cosiddetta società civile, proponevo su questo giornale la parola “dissidenti”: non mi sembra così inesatta. Resta che, nel laboratorio italiano da sempre all’avanguardia (per il peggio), anche il potere politico oggi assoluto (ab-soluto, assolto) è mera espressione di interessi privati. E ora, prima di riavviare il discorso, dedicato oggi al contributo di studiose a partire dalla “differenza sessuale”, mi si permetta un preambolo “a buon mercato”.
Un mensile del gruppo Rizzoli pubblica questo mese un questionario rivolto a parlamentari e politici di professione. Tema: l’aumento dei prezzi. Ma la domanda principale è se essi facciano mai la spesa. Il risultato è desolante: salvo eccezioni (il solito comunista, Giuliano Pisapia, e Antonio Di Pietro che compra la frutta), solo le donne interpellate vanno personalmente al negozio o al supermercato a farsi carico (in ogni senso) del cibo quotidiano. Gli uomini mai. (Non so perché, ma anche qui riesce a spiccare, come un ripugnante clone di plastica, il forzista Schifani, che personalmente, dice senza arrossire, compra solo “camicie di buona qualità”). Per sintetizzare: la democrazia nasce dalla rinascimentale “civiltà della conversazione”, dove la retorica si fondeva con l’arte dell’essere-in-comune. E questo dall’epica dei mercanti. E’ giusto che i rappresentanti eletti del popolo non vadano mai a fare la spesa, né salgano su un autobus? In Francia, dove nessun politico ammetterebbe senza vergogna di non conoscere il prezzo di carne, frutta e verdura, e dove è normale prendere il metrò, non c’è bisogno di scomodare Du Marsais, l’autore del celebre trattato Dei Tropi, per sapere che la retorica, maestra della politica, nasce sulla strada, e che i migliori rhétoriqueurs si trovano tra i banchi del mercato. Temo che la questione non sia riducibile al “conflitto antropologico” tra destra e sinistra, ma trasversale. In Passami il sale, romanzo sull’esperienza politico-amministrativa della scrittrice Clara Sereni, ci sono frasi indimenticabili sull’incuria quotidiana degli uomini, fatta di gesti, di spregi, di parole, di scherni, tanto di colleghi di destra che di sinistra. E questo spiegherebbe qualcosa su quella zona grigia e indistinta del cosiddetto “riformismo” italiano, così distante dalla concretezza dei bisogni e valori reali da avere indotto una buona parte di cittadini a organizzarsi politicamente.
Ma anche la retorica, con le sue figure e i suoi tropi, non è una disciplina neutrale. Se una volta era prossima alla vita, contigua alle esperienze e alla loro fisica concretezza, da tempo è prevalentemente “metaforica”, foriera di astrazioni sempre più vertiginose che procedono parallelamente all’alienazione delle nostre vite, all’impoverimento dell’esperienza e del linguaggio, alla supremazia di una politica che è solo strategia di occupazione del potere. Il potere stesso è sempre più astratto, come il senso del valore espresso da questo tardo capitalismo (o post-capitalismo), ormai in prevalenza finanziario e immateriale (la crisi della FIAT ne è l’ultimo e tragico esempio). Se Marx sintetizzava colla sua solita ironia il passaggio della borghesia “dall’accumulazione dei piaceri al piacere dell’accumulazione”, oggi, “nell’era dell’accesso”, nessuno, neanche il più potente, può dirsi immune dallo scollamento nei confronti della vita, dall’alienazione della specie umana che al feticismo della merce ha perfino sostituito una copia, un “simulacro”. E che, nell’illusione pubblicitaria di un’immortalità ormai del tutto sprovvista di riti, scopre che il nemico e la morte possono essere ovunque – si chiami terrorismo, antrace, ritorno del rimosso, o semplice estinzione.
Dicevo sopra della retorica. Ogni politica di liberazione ha sempre origine nel linguaggio. L’opposizione tra retorica della e nella vita, dei corpi, delle esperienze, dei contesti (la metonimia); e quella dell’astrazione, delle mode, dei modelli importati, della separazione dall’esperienza e dalla propria storia (la metafora), era l’oggetto di un breve e intenso saggio della filosofa Luisa Muraro, intitolato La maglia e l’uncinetto. In esso la Muraro mostra come la metafora non sia più, come voleva Roman Jakobson (e ammesso che la sia stata), prerogativa della poesia, così come la metonimia della prosa; ma siano l’una, la metafora, paradigma della teoria e dell’astrazione, e l’altra solidale alla vita concreta e all’esperienza. Muraro disegnava poi le varie tappe dell’attuale dominio dell’astrazione metaforica, di un’alienazione che dal linguaggio, dall’incapacità di dire l’esperienza, arriva all’abitare e alla perdita della memoria, individuale e storica. Per esempio lo stile urbanistico d’importazione delle villette (magari con le statuine dei sette nani nel giardinetto), nelle regioni padane: spia di un “vivere per interposta persona” che, oltre all’ammutolimento, non mi pare genealogicamente estraneo agli angoscianti episodi criminosi (quasi tutti svoltisi all’interno di villette unifamigliari) che costituiscono la nostra “Italian Beauty”. Il passaggio traumatico da una civiltà contadina e artigianale a una realtà industriale, dove la profusione delle ricchezze non si accompagna a occasioni di consapevolezza e vita comune (esistono cinema o centri sociali a Novi Ligure o a Leno nel bresciano?), è senz’altro tra le cause di questa implosione. Ma la crisi politica e della civiltà è a sua volta crisi del rapporto con la tradizione. Se ho citato la Muraro insieme all’atto quotidiano del “fare la spesa”, è per tematizzare il contributo del pensiero delle donne nel pensare questa frattura. Il contributo cioè delle donne a “un’intimità della politica” che non abdichi né nei confronti dell’intimità, né nei confronti della politica.
Si legga questa riflessione di Wanda Tommasi: “…nella tradizione vivente che la lingua materna trasmette, in alcune espressioni dialettali intraducibili in italiano, in certe canzoni popolari che parlano di sofferenza e d’amore, ritrovo il sapore della mia infanzia, la voce di mia madre che canta. Ritrovo pienamente l’opera della madre, il suo lavoro di civiltà che ha reso umano e simbolicamente significativo il fatto di venire al mondo come bambine e bambini, vestiti di rosa o d’azzurro, il mangiare, che è un’attività umana non animale se solo si pensa alla sapienza femminile distillata lungo i secoli e sedimentata in ogni cibo, il fare all’amore, il godere e il soffrire, e infine il morire, a cui, come c’insegna Hegel, la donna è più vicina dell’uomo, come custode e compagna del morente, per la sua maggiore intimità con gli dei inferi”.
E’ tratta da un saggio che appare nel libro di Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione. Da anni escono i libri di “Diotima”, nome di una comunità filosofica femminile che si raccoglie presso l’Università di Verona. L’ultimo volume richiama il tema dell’“assenza” delle donne nella catena di trasmissione della nostra civiltà, fatta di violenze, potere, sopraffazione e alienazione imputabili, storicamente e concettualmente, a una tradizione maschile: Platone compreso, che primo nella tradizione occidentale escluse le donne dalla vita pubblica e dal sapere. Di quest’assenza è opportuno approfittare, trarre indicazioni politiche o, come si dice, l’idea di un’alternativa. Il che mi ricorda l’emozione, non solo intellettuale, che mi diede negli anni Ottanta, all’epoca della paura (oggi attualissima) di guerre atomiche e mondiali, di testate e “inverni” nucleari, la cronaca di una manifestazione per la pace in cui, accanto ai soliti striscioni contro la Nato, ne apparve uno con su scritto Fuori la guerra dalla Storia. A portarlo, un gruppo di donne femministe. Chi altri avrebbe potuto approfittare dell’“assenza” per criticare così massivamente la tradizione di una civiltà in cui il logos da sempre si confonde col pòlemos, la ragione con la guerra?
Nel volume di Diotima tutti i contributi sono importanti (Vita Cosentino sull’educazione linguistica, Diana Sartori sui “diritti dell’uomo e del cittadino”, l’analisi della “tabula rasa” di Annarosa Buttarelli, del “tempo vivo” di Chiara Zamboni, etc.). Il saggio di Wanda Tommasi (“Di madre in figlia”) cita Walter Benjamin e Hannah Arendt, se non altro per il titolo con cui l’una designava l’altro, “il pescatore di perle”, per dire un rapporto disincantato e consapevole con la tradizione e insieme una tesi sulla “frattura nella tradizione”. Benjamin che, accanto alla linea della trasmissione materna, è emblema di un’opzione filologica, politica del testo che si vuole inventario di citazioni, lacerti di un passato irrecuperabile, frammenti di un vaso spezzato di cui, accanto alla libertà e alla responsabilità, ci facciamo carico a volte nella malinconia, nostalgia, e altri sentimenti tutt’altro che vergognosi. Nulla di più simile al libro “tutto fatto di citazioni” di cui teorizzava Benjamin che un diario, protocollo di esperienze e inventario alla cieca. E non a caso in questa serie abbiamo parlato di diari, confessioni e romanzi, in cui autori e filosofi problematizzano il proprio rapporto esistenziale con la politica. Dove si tocca, dietro il valore politico della testimonianza e sulla scia della “biopolitica”, la questione delle “forme di vita” (umane e animali), al centro della riflessione di filosofi come Giorgio Agamben e Jacques Derrida (e di un libro recente di Paolo Virno, Grammatica della moltitudine). Diversamente da impostazioni politiche astratte e dirigistiche, più simili a una teoria della militanza che all’idea vivibile di una resistenza, il contributo delle donne di Diotima, individualmente e collettivamente, suggerisce come rifondare la politica nella vita, tentando di sciogliere alcuni nodi tra teoria (metafora?) e prassi (metonimia?). Resta da chiedersi, con Wanda Tommasi: “Ma quante sono ancora, oggi, nell’Occidente emancipato, le donne che vogliono continuare quell’opera di civiltà che, per millenni, silenziosamente, le nostre madri hanno compiuto per rendere abitabili le case e per rendere umana la vita “animale”?”
Beppe Sebaste