Philip K. Dick, Tutti i mondi possibili

Cammino per strada – la gente, gli autobus, le automobili, i palazzi, i neon a colori, i ristoranti illuminati. Un universo di rumori, di traiettorie di corpi, di espressioni. Anche i disperati che dormono sui marciapiedi ne fanno parte, anche le sirene delle ambulanze, la cui urgenza assume un carattere urbano e protettivo, quasi dolce. Eppure, tutto questo potrebbe essere falso e inesistente (il malin génie di Cartesio?), un’allucinazione, un ologramma. Un black-out e hop, tutto scomparso, svelando un inquietante, silenzioso, forse polveroso nulla. Oppure un Tutt’Altro, una Cosa, un blob… Quell’uomo che ripara elettrodomestici, il garzone del negozio di animali, la ragazza alla cassa del negozio di dischi, il barbone educato, il ragazzino focomelico, quel cane bastardo zoppicante lungo i muri: loro, se non Dio stesso, sono forse emissari di Dio, e quello con loro sarebbe l’incontro più significativo della vita, da cui forse dipende la sorte del Mondo, di questo, o degli innumerevoli mondi. Forse anche Dio è in pericolo, forse Dio è schizofrenico, e tutto ciò che accade, i conflitti, le catastrofi, quelle strane slogature della realtà, quei dettagli vagamente fuori posto, quell’inquietante famigliarità che ogni tanto salta agli occhi, non sono che indizi di un’immane battaglia la cui posta è riunire le due metà della psiche di Dio, della vita stessa, la vita del tutto. Solo pochi lo sanno, un bambino, un animale che parla, un profeta dall’aria stupida, le allucinazioni di un tossico, una Cassandra qualsiasi. E io batto sui tasti di questo anonimo computer una lettera a D.I.O. – Deduco Immediatamente Omnia
Sto cercando di evocare l’immaginazione di Philip K. Dick, il grande scrittore visionario morto appena cinquentenne nel 1982, la cui vita fu interamente mischiata, fino a confondersi, con  quella dei suoi romanzi, come mostrano la biografia scritta da Lawrence Sutin Divina invasione e il film documentario Il vangelo secondo Philip Dick. E’ strano, ma solo in questi anni, e spesso indirettamente, ci si rende conto dell’importanza di Dick. Lo dice anche il successo di film come Matrix: violenza a parte, ogni sua idea narrativa, se non ogni sequenza, è un’imitazione o una citazione dei racconti di Philip Dick. Come la figura dell’”Oracolo”, sorta di divinità del Bene, incarnata nel film da una gentile signora grassa di colore che offre biscotti appena sfornati all’eroe che ne deve ricevere l’iniziazione: puro Philip Dick. Per non parlare dei temi della vita finta, dell’iperreale, del simulacro, dell’allucinazione collettiva al posto del reale. A cui però Dick aggiungeva un inimitabile dono, quello della compassione, di cui sono testimoni i suoi personaggi dolcissimi e perdenti, emarginati e santi.
La letteratura è romantica. Sogna e dice ciò che non si vede, nascosto da ciò che si vede. Da Rimbaud e Baudelaire in poi i poeti sono veggenti, e la letteratura enuncia che il sogno è politico, e che la sua vocazione è quella di spargere il dubbio, esaltare i “mondi possibili”, che da enunciati controfattuali nell’ambito della logica modale presero a significare gli universi della narrativa, e non solo: anche le utopie e i programmi politici sono mondi possibili. Esattamente ciò di cui gli scrittori statunitensi di science fiction (ma il termine va loro stretto), dagli anni ’50-‘60 in poi (la cosiddetta lysergic generation), furono alfieri: Philip K. Dick, Robert Sheckley, Frederic Brown, Roger Zelazny, e molti altri.
Ma Philip Dick divenne un maestro. La sua umanità, prima che diventasse un’autorità spirituale nel mondo della controcultura in California, la si può leggere nella folgorante rievocazione della sua vita scritta due anni prima della morte a introduzione di una raccolta di racconti (Non saremo noi, Urania n. 896). Mentre di giorno si serviva di carne di cavallo alla macelleria Lucky Dog – spiega l’autore della Trilogia di Valis, diUbik, di Blade Runner e di La svastica sul sole – la notte scriveva romanzi di fantascienza per articolare meglio i propri dubbi e paure. Naturalmente, il macellaio era ignaro che quella carne di cavallo, “ad esclusivo consumo animale”, la mangiassero Philip e la sua compagna, e mai lui l’avrebbe confessato, per paura di incorrere in una punizione. A parte l’estrema povertà, confessava Dick, “ridotto all’osso il problema è questo: ho paura dell’autorità, ma allo stesso tempo sono pieno di risentimento, per l’autorità e per la mia paura… Così mi ribello. Scrivere fantascienza è un modo per ribellarsi (…), la fantascienza è una forma d’arte ribelle, e ha bisogno di scrittori con cattive inclinazioni, come per esempio quella di chiedere sempre Perché?, o Come mai?, o Chi l’ha detto? Questo atteggiamento è sublimato in alcuni temi tipici delle mie storie, come: L’universo è qualcosa di reale?, oppure: Siamo davvero uomini, o solo macchine?”
Coltissimo e onnivoro autodidatta, l’immaginazione “fantascientifica” di Philip Dick aveva molto a che fare con quel “moderno” immaginario scaturito dal sapere che il filosofo Michel Foucault, in un saggio su La tentazione di Sant’Antonio di Gustave Flaubert, definì “fantastico da biblioteca”. Così come il libro di Flaubert sull’eremita del deserto era una fantasmagoria di personaggi deliranti, ognuno portatore di teorie ed eresie cristiane, paleo-cristiane o precristiane, i romanzi di Philip Dick, in un’analoga forma di “onirismo erudito”, attingono a un repertorio vastissimo che sfila tra i Vangeli Gnostici di Nag Hammadi ai manoscritti di Qumran, dai Sufi al Tao, da Eraclito allo Zen, da Basilide all’I Ching. Vale allora per Dick quanto Foucault scrisse per Flaubert: “Per sognare, non si devono chiudere gli occhi, si deve leggere. La vera immagine è conoscenza”. Anche il fantastico da biblioteca di Dick attesta un nesso tra il delirio dell’immaginazione e la pazienza del sapere, e i suoi libri sono spesso, direbbe Foucault, “sogni di altri libri”. Fu uno di questi sogni che trasformò Dick, ma mai senza autoironia, in profeta e santo di una religione cui di volta in volta diede nomi diversi. L’”umano, troppo umano” in Dick si confonde e si metamorfosizza nell’alieno, troppo alieno. Il che è sempre, forse, la cifra della santità, di una ”invasione divina”.
Leggere oggi Philip K. Dick è un’esperienza duplice. Da una parte sembra quasi un documentario, dato che molti dei suoi incubi sono diventati realtà, dalla dittatura dei pubblicitari al controllo e alla manipolazione delle menti. Dall’altra, come la migliore letteratura, continua a prestarci uno sguardo lucido e fraterno non solo per vedere il mondo e decodificare i segni della Storia, ma per sopportarlo, per andare avanti nonostante tutto, e sperare. La sua “fantascienza” non ha mai smesso di narrare la vita quotidiana, i casini della gente, la disperazione degli individui. E, quindi, di consolarci.
“L’esaurimento nervoso di Horselover Fat cominciò il giorno in cui ricevette la telefonata di Gloria, con cui gli chiedeva se avesse del Nembutal. Lui le domandò perché lo volesse, e lei rispose che aveva intenzione di uccidersi.” Così comincia, a trecento all’ora e con costante controllo del tasso emotivo, uno degli ultimi romanzi “teologici” (Valis) di Philip Dick, in parte narrazione autobiografia in terza persona di una sua devastante crisi psichica. Il protagonista è un uomo grosso e barbuto, compassionevole e nevrotico, insomma Philip Dick, riconoscibile dalla traduzione rispettivamente dal greco (Philip – Horslover) e dal tedesco (Dick – Fat). Geniale osservatore e affabulatore delle proprie e altrui patologie, saggio e paranoico, creatore di mondi incapace di vivere senza una donna, drogato di pillole e profeta acclamato (perfino da John Lennon) dell’acido lisergico, pur non avendo in realtà mai provato l’LSD; profeta evangelico di una moltitudine di seguaci, Philip Dick è perfino risorto: non so bene quante volte, ma una almeno è documentata, per combattere e vincere l’ultima battaglia contro l’odiato Richard Nixon, simbolo del Male, nel romanzo di Michael Bishop, L’Alternativa, dove il “fantasma” di Dick sopravvive a forza di caffè bollente.
Il caffè me l’hanno portato prima, c’è ancora di fianco al mouse la tazza sporca all’orlo. Il ronzio dei computer è spento, l’Internet café è ormai deserto. Solo la luce azzurrina del mio schermo che si riflette fioca, e fuori il parco ormai annerito del Luxembourg. Ci sono foglie tenere da calpestare, e qualche lampione a illuminare la notte. Più lontano, quasi all’orizzonte del boulevard, un neon luminoso come una stella. Un paio di passanti sul largo marciapiedi di rue de Médicis, diretti verso il Pantheon, guardano verso di me nella luce fioca. Cosa ci faccio qui, e cosa farò quando avrò terminato di scrivere? E’ mai possibile terminare di scrivere? Adesso mi viene in mente che uno dei romanzi più belli di Philip Dick ha un titolo shakespeariano, Tempo fuori luogo (“the time is out of joint”, esclama Amleto). Come quasi tutte le sue storie, parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile, di una vita che deve trasformarsi. Parla della vita. La vita “vera” di Philip K. Dick fu un fitto percorso di disastri, sconnessioni, tempi fuori luogo e fuori asse. E’ bella da leggere, anche se non sostituisce i suoi romanzi, ma li reclama. E quasi quasi ci convinciamo, con Dick, che se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità.

Beppe Sebaste