Quando fui salvato da I miei amici

emmanuel bove

Quando lessi Mes amis, in edizione tascabile, e quasi subito decisi di tradurlo, non lo conosceva nessuno in Italia.  Lo scoprii insieme a Giorgio Messori grazie a degli amici di Ginevra, città dove facevo lo studente post-laurea e abitavo in modo non tanto diverso, tutto sommato, da quello del personaggio di I miei amici, se quando una moneta da 5 franchi mi si materializzava nelle tasche, in certi periodi, costituiva una festa miracolosa, e correvo alla boulangerie della Migros a comprare un pane caldo e due-tre barrette di cioccolata per farcirlo, poi mangiarlo su una panchina del Parc les Cropettes, dietro la stazione, di fronte alla mia soffitta con camino e topolino che mi lasciò l’amico poeta Vince Fasciani.

Tradurlo non fu un lavoro, ma un gesto necessario e salvifico, fu la stessa cosa che scrivere, ripeto: un modo per salvarmi. Grazie a Gianni Celati che Giorgio e io conoscemmo negli anni ’80 (mai stato suo allievo, né mai frequentato quando stavo a Bologna, anche se Wikipedia mi elenca tra i suoi studenti), riuscii a convincere Feltrinelli a pubblicarlo. I miei amici uscì nella collana Impronte, bella ma severa e marginale. Come tutto quello che ho pubblicato da Feltrinelli, dopo qualche anno sparì fuori catalogo. Decisamente Emmanuel Bove non ha  nulla di televisivo, nulla che si affidi all’ebbrezza di una trama, nulla che assomigli a una sceneggiatura, etc. È solo tono e scrittura: Bove non scrive con le parole, per fare chissà cos’altro. Bove scrive parole.

Ho rivisto la mia traduzione (pochi dettagli) e ho scritto una post-fazione (più lunga della paginetta del 1991). Ma forse non c’era bisogno. Oggi Bove è più conosciuto. Almeno credo. La mia scrittura (tante volte lo dimentico), o il fatto che abbia scritto un libro che si chiama Panchine (anche se Bove non parla mai di panchine) è testimonianza di un’affinità elettiva verso questo autore morto troppo presto. Sono felice che I miei amici sia tornato un libro leggibile, un libro che si trova, che altri lo scoprano. Mi sento coinvolto. Tornerò presto a farmi leggere anch’io. L’unico appunto che faccio è la copertina. Non è male, ma mi ero affezionato a una mia idea, un’associazione visiva, il dipinto Pont de l’Europe (ne esistono alcune varianti) di Gustave Caillebotte, un pittore intimamente vicino secondo me al realismo di Bove, un anche se i suoi quadri precedono di cinquant’anni il suo romanzo d’esordio, I miei amici. Guardatelo. E se avete letto il libro, se avete letto soprattutto l’irresistibile capitolo su “Neveu il marinaio”, capirete meglio il perché di questa associazione di idee.

Caillebotte-PontdeL'Europe-Geneva

Qui di seguito la mia postfazione a I miei amici (edizione Feltrinelli)

Non si finisce mai di riscoprirlo, osservava anni fa a proposito di Emmanuel Bove un critico francese[1]; ma il suo nome non finisce mai di ripiombare nel silenzio, nonostante le prestigiose riabilitazioni di cui è periodicamente oggetto. Il fatto è che buona parte del fascino dei libri di Bove è nella distanza dai canoni editoriali che privilegiano, nella letteratura, la narrativa di trama. Anche per questo è così attuale.

A Bove non interessano le trame. Che si tratti del girovagare a Parigi di Victor Bâton in Mes amis (1924), o del suspens angoscioso del regime di Vichy, il fascismo alla francese descritto vent’anni dopo in Le Piège (La trappola), per Bove quello che conta nella narrativa è il tono. Che per lui è tutt’uno con lo stile.

Jean Cassou definiva il tono di Bove «un’arte di singolare potere […] che non indietreggia davanti all’effetto di choc e di malessere che la sua precisione produce». E’ uno stile che non ha nulla a che fare con la ricercata oggettività del nouveau roman (di cui Bove fu erroneamente indicato come precursore), se non nell’attenzione al linguaggio considerato qualcosa di più di un veicolo epico. «Nessuno come lui ha il dono del dettaglio emozionante», disse di Bove Samuel Beckett, che aveva peraltro vissuto in una camera a Montparnasse in modo molto simile al protagonista di Mes amis. Prima ancora Rainer Maria Rilke, che ne era un ammiratore, in una lettera del 1925 a Maurice Betz, traduttore francese dei Quaderni di Malte, proponeva due formule per descriverne lo stile, “esitazione plastica” e “ritenzione profonda”, aggiungendo: «Quanto deve contare poco, per lui, il “soggetto”! ».

In una delle rare pagine di diario, Bove lo conferma con chiarezza: «Non c’è niente di più paralizzante della ricerca di un soggetto. Jean Fayard [editore, N.d.R.] è venuto ieri l’altro a trovarmi. Dice: “Bisogna partire da un buon soggetto. Guardi i Russi”. Non la penso così. In loro è il tono a essere grande. I soggetti degli scrittori francesi d’appendice sono altrettanto grandi di quelli di Dostoievskij. In breve, non esiste soggetto, esiste solo quello che uno prova. Io per esempio provo fortemente l’inazione: sarà un’azione nel mio libro».

Su una cosa tutti i lettori di Bove concordano: I miei amici – col suo humour e la sua tenerezza disarmante, con quell’implacabilità dello sguardo che scava se stesso e tutto ciò che è umano – è la migliore introduzione alla sua opera. L’incipit esprimerebbe già tutta la novità del suo stile, l’intensità luminosa della povertà e della mancanza ricreate nella nudità del lessico e della sintassi, quasi un’anoressia del linguaggio. Personalmente trovo che siano le pagine finali il punto d’arrivo della sua verità più abbagliante.

Nato il 20 aprile 1898 a Parigi da padre russo e madre lussemburghese (il suo vero nome è Bobovnikoff), Emmanuel Bove trascorse gran parte della sua giovinezza e formazione a Ginevra e in Inghilterra, e tornò a Parigi a diciott’anni. Iniziò a scrivere come cronista, e fu Colette ad aiutarlo a pubblicare il primo romanzo, Mes amis, nel 1924. Ne pubblicò una trentina, anche alcuni polizieschi, con uno pseudonimo. Apprezzato da Edmond Jaloux e da quanti si raccoglievano attorno ai fratelli librai-editori Emile-Paul, da Philippe Soupault e da André Gide, da Max Jakob e da Maurice Utrillo, che disegnò il frontespizio del suo testo Bécon-le-Bruyères, Bove conobbe il successo letterario, partecipò alla Resistenza e negli anni Trenta pubblicò su giornali antifascisti. Sua moglie vendeva l’Humanité, il giornale comunista, ma lui si tenne lontano dalla politica. Morì giovane, nel 1945, a Parigi. E’ sepolto nel cimitero di Montparnasse.

Non fu amato solo da Beckett e da Rilke. Verso la fine degli anni Ottanta lo scrittore Peter Handke e il regista Wim Wenders ne fecero per un momento un autore di culto: il primo traducendo devotamente proprio Mes amis, il secondo passeggiando con una copia del romanzo sottobraccio in un cortometraggio su New York, mentre la sua voce fuori campo dice: «Finalmente, dopo giorni di erranza, è un libro a destarmi la voglia di immagini restituendomi il senso del narrare. Questa storia semplice e esemplare, con il suo rispetto per i dettagli, mi ricorda che il cinema può descrivere allo stesso modo, lasciando le cose così come sono».

Evidentemente le idee fluttuano nell’aria e creano convergenze inaspettate, perché fu in quello stesso periodo che lessi Bove e iniziai a tradurre Mes amis. Abitavo a Ginevra e vivevo di borse di studio, ma il mio scollamento sociale non aveva etichette, tanto meno quella oggi abusata di “precarietà”. Con la sua sommessa protesta e il suo modo quasi silenzioso di gridare, Bove mi aiutava a vivere. Mi faceva anche ridere di gusto, come un Robert Walser metropolitano, uno spostato, tanto nella vita quanto nel linguaggio e nello sguardo.

Solo sul finire degli anni Novanta, cioè del secolo scorso, Raymond Cousse et Jean-Luc Bitton hanno pubblicato un’appassionata biografia della vita e dell’opera di Bove[2].

Bove non racconta solo la solitudine contemporanea come un’estraneità dentro le forme della vita sociale, quel sentimento di essere perduti tra la gente (la “folla solitaria”) che fu la cifra e il successo di molti racconti (e film) americani[3] – storie di uomini soli e senza appartenenza, da Melville a Carver. Il rifiuto del lavoro (della “schiavitù del salariato”, ha precisato Jean-Luc Bitton[4]) del protagonista di I miei amici, la sua vita inoperosa o scioperata, ricordano la sommessa ma risoluta ostinazione di Bartleby lo scrivano, il suo “preferirei di no” in risposta ai comandi, sabotaggio al mondo dell’efficacia e ndella perfomance a partire dalla logica del linguaggio. La vita quotidiana di Victor Bâton è un’analoga e radicale opposizione alla società borghese. Ma è anche quintessenza del ristretto “spazio letterario” da Baudelaire in poi, cioè dalla perdita dell’“aura”, da quando il poeta è in realtà un emarginato. Come i suoi personaggi sono alieni o avversi a ogni consolatoria prevedibilità sociologica, anche la scrittura di Bove è irriducibile a ogni prevedibilità narrativa.

Cronista minuzioso dell’umano senso di colpa, condivise con l’amato Dostoievskij la propensione al noir: i reportages e le cronache di delitti di Bove sono stati ripescati e pubblicati di recente in un libro delizioso[5], ma rispetto ai polizieschi la sua attenzione agli indizi è quella di un detective che esplora tutto senza cercare niente, salvo pervenire, direbbe Peter Handke, «nei luoghi non ancora occupati dal senso». Come in Simenon, con cui ha in comune l’apprendistato alla scrittura come cronista di nera, è l’empatia a caratterizzare i suoi affreschi narrativi, che siano di un quartiere o dell’anima di un uomo. Inviato del Quotidien, i pezzi di Bove anticipavano sia il contemporaneo “gonzo journalism” che i libri di Georges Perec. Uno dei suoi capolavori resta la descrizione del sobborgo parigino Bécon-les-Bruyères, che Handke definì “un grande haiku di periferia”.

Bove fu in effetti tra i primi grandi scrittori della periferia (ciò che corrisponde così bene alla sua scrittura eccentrica), consapevole non solo che non c’è niente di meno marginale dei margini, ma che ai margini della vita c’è sempre un sovrappiù di vita.

 

[1] G. Tordjman su L’Evénement du Jeudi, 4 febbraio 1999

[2] R. Cousse, J.-L. Bitton, Emmanuel Bove. La Vie comme une ombre, Le Castor Astral, 1998.

[3] Si veda Storie di solitari americani, a cura di G. Celati e D. Benati, Rizzoli, 2006.

[4] “Une place parmi les hommes”, in Le Matricule des Anges n. 145, luglio-agosto 2013, Dossier Emmanuel Bove.

[5] Arrestations celèbres, Edition Cent pages, 2013

 

 

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