“Questo libro è un calendario del viaggio di un uomo attraverso alcuni mesi della sua vita”, nella speranza di raggiungere un periodo di grazia. “Grazia” significa “un rapporto più realistico con il corso della vita”, incrementare la distanza tra un problema e l’altro, di modo che “in mezzo potrebbe spuntare come una giunchiglia”: “le giunchiglie sono i miei fiori preferiti”. Ecco il realismo di Richard Brautigan. Del resto, per questo maestro riconosciuto della short story, nomade e anarchico delle forme letterarie, “la vita si riassume a volte in una storia di caffé, e a quel poco di intimità che una tazza di caffé può creare”.
Ci si commuove e si ride leggendo i suoi libri, e mai come in questo ultimo quaderno, Una donna senza fortuna (tradotto da Enrico Monti per Isbn), “cartina-calendario in caduta libera”, mappa e diario che si svolge tra gennaio e luglio del 1982, tra il Montana innevato e Berkeley, San Francisco e il Canada, Honolulu e l’Alaska, e ancora il Montana, in un accumulo di immagini e divagazioni. Ci si commuove e si ride del tentativo di dire la vita così com’è, la sua evidenza, incantati dalle sue frasi sospese “tra canyon di nostalgia e ricordi di pomeriggi di pioggia”. Scrivere il diario è fare un inventario alla cieca, dipanare la trama sfilacciata della vita, non necessariamente la propria: è la vita in sé ad essere sfilacciata e imprendibile, salvo sorprenderla con allusioni, battute di spirito fulminanti, risate, sogni, gags e situazioni strampalate, e infine lunghe attese: attese che il quaderno finisca, attesa che N., 38 anni e attaccata dal cancro, finisca i suoi giorni in ospedale, attesa che si sciolga la neve del Montana, e diventi fiume e oceano. “Le parole sono fiori di niente”, telegrafa all’amica morente, facendola felice con questa specie di haiku. La vita è stramba e dolorosa, ma fa decisamente ridere anche quando sembra spezzarci il cuore.
Richard Brautigan ha attraversato la letteratura americana come una meteora facendo esplodere i generi, dal western al poliziesco (ricordiamo almeno Sognando Babilonia), usandoli come contenitori di una scrittura irriducibilmente libera e anarchica. Ottenne la consacrazione e il successo con la pubblicazione di Pesca alla trota in America, che non parla né di canne da pesca, né di mulinelli né di trote, ma di amori e di solitudine, di bar e di strade, di alcool e soprattutto dell’America. La sua America, come disse il suo amico e collega Jim Harrison, è quella del centro degli Stati Uniti, quella cioè che si rischia di sorvolare e non vedere mai, presi come si è dalla smania di passare da una costa all’altra degli States. Ma, più ancora che gli altri suoi libri, la narrazione di Una donna senza fortuna procede per proliferazione di storie, aneddoti, come se fossero pezzi di carta ritrovati, o meglio ancora come lettere, dove l’autore scrive in presa diretta, entra ed esce dalla scrittura come il fuori campo nel cinema, fino a non essere più l’autore, ma il libro stesso. Il suo programma di scrittura (nella sua formazione Brautigan annovera i Surrealisti) è quello di abolire la distanza tra la letteratura e la vita, sapendo che in qualsiasi storia sono i bianchi, gli spazi vuoti che contano, come il silenzio nella musica. La sua prosa, incantevole e disincantata, è pervasa da uno humour debordante, a volte metafisico. Le sue immagini e descrizioni sono una specie di racconto parallelo che relativizza e deborda i fatti narrati, rompe la cornice del racconto e invita a leggervi attraverso.
Il libro comincia con la visione di “una scarpa nuova da donna in mezzo a un tranquillo incrocio di Honolulu”. Nell’incongruità del dettaglio e nello sguardo straniato c’è sì l’incanto, ma anche una minaccia, un presagio di fine e di incompiutezza, che l’autore sfida e attraversa come uno specchio. La prima edizione mondiale fu in francese, a cura del suo amico Marc Chenetier, col titolo Quaderno di un ritorno da Troia: perché la condizione dell’esilio e della perdita non ha come modello l’Odissea, ma l’Eneide del pastorale Virgilio. Anche Brautigan vorrebbe passare la vita a osservare la neve e le praterie del Montana, ma si ritrova a farsi fotografare con una gallina in braccio alle Hawaii, a guardare “un corvo con un hot dog che gli spunta dalla bocca come una barca a remi” in Alaska, dove si ubriaca col deputato locale, o perplesso a Berkeley in una casa dove una donna si è impiccata, a San Francisco sognando di incontrare una nuova amante al supermercato, e dove scende dal tram per guardare un palazzo in fiamme e raccontarlo al telefono da una cabina. Nelle Hawaii ama stare nel cimitero giapponese, a guardare le tombe mentre “il suono del vicino oceano è la musica del loro silenzio”.
Richard Brautigan è nato a Tacoma (Washington) nel 1935, e pubblicò la sua prima raccolta di poesie nel 1954. Stufo di essere il primo della classe, nel 1955 si fece arrestare fracassando con un sasso la vetrata di una stazione di polizia. Fu ricoverato invece a vent’anni nello stesso asilo psichiatrico in cui Milos Forman girò il film Qualcuno volò sul nido del cuculo (dal romanzo di Ken Kesey) e trattato con elettroshock, con la diagnosi di schizofrenia paranoica. Quando uscì, abbandonò la famiglia e partì per San Francisco. Fu così che entrò nel giro della beat generation di Ferlinghetti, Kerouac e Ginsberg, legandosi di amicizia soprattutto col grande poeta Jack Spicer (colui che gli assomigliava di più).
Una donna senza fortuna fu scritto nel quarantesettesimo anno dell’autore, ed è in fondo la cronaca lucida, disincantata e delicata insieme, di una deriva, cui seguirà due anni dopo un suicidio reale. Parla di sopravvivenza e di finitudine in modo elegiaco, senza mai nulla, assolutamente nulla di deprimente. Meno di due anni dopo, Brautigan si sparerà in testa con una 44 Magnum nella sua casa di Bolinas, in California. A me piace immaginarlo mentre procede nella redazione di questo quaderno, e a un certo punto alzarsi dal tavolo, o meglio dalla pagina che stiamo leggendo, e dirci, soave come un monaco Zen: “Adesso mi alzo e vado a passeggiare un po’ in questo paesaggio del Montana”.
Beppe Sebaste
Il Venerdì di Repubblica, 19 ottobre 2007