(uscito su l’Unità, 12 maggio 2002)
Ho letto che Berlusconi, dopo una sua conferenza-monologo, ha irriso un signore del pubblico perché, nel fargli una domanda, si è messo emotivamente a balbettare. La balbuzie, che rallentando il linguaggio introduce la vertigine del pensiero, della lentezza, della pazienza e dell’attesa (nonché la presenza dell’altro e del suo volto), è antitetica al modo impersonale della tecnocrazia e della demagogia pubblicitaria, al primato dell’economico sulla vita politica e sociale. E’ antitetica soprattutto alle leggi del profitto in genere, basate sulla velocità e l’accelerazione. Del tutto coerente con se stesso, quindi, Berlusconi ha irriso con disprezzo il cittadino balbuziente evitando di rispondergli, evitando anzi di ascoltarlo.
La lentezza è sua nemica, come storicamente è nemica degli eccessi del potere: sit-in, scioperi, manifestazioni di protesta in genere, nascono e si sviluppano come rallentamenti, paralisi e arresti del flusso dominante. Per non dire dell’emotività di chi balbetta: una nefandezza già solo per il fatto di intralciare l’impersonalità e la fredda efficienza del potere, che è potere economico, impresa, conduzione d’azienda, che sia Mediaset o la “azienda Italia”. Come la poesia, nella definizione della linguistica e della teoria dell’informazione, rallenta e intralcia con la sua ambiguità il canale di comunicazione, ed è irriducibile al contenuto informativo che la uniforma a merce, così la balbuzie rallenta e intralcia l’efficienza. Come la democrazia e i diritti? Sì: “il parlamento è d’intralcio perché fa perdere tempo”, disse un impareggiabile Berlusconi nel 1994. E’ la stessa cosa. Lui però lo chiama “riformismo”, ed è di questo, oltre che di parole, di lingua e di “neolingua”, che vorrei qui parlare.
I regimi, i totalitarismi, cominciano sempre a insediarsi nel linguaggio, ben sapendo che la distruzione delle idee e delle parole ha effetti più duraturi e devastanti di quella sulle cose. E’ un disastro ecologico non secondario rispetto a quello dei laghi, dei fiumi e dell’aria che respiriamo. E, allo stesso modo di chi inquina, il fatto che questo sradicamento linguistico, questa corrosione semantica, sfugga loro di mano, e spazzi via come napalm anche il loro stesso retroterra morale e umano e quello dei loro figli (l’estinzione delle parole e delle idee), sembra non preoccupare per nulla, nella loro irresponsabilità “riformista”, coloro che ci governano. Il regime berlusconiano sembra distinguersi per un’accurata e massiccia occupazione del linguaggio, e per il sistematico e accanito svuotamento di senso che questa occupazione (in senso quasi militare) opera sulle parole. A questa pulizia etnica si accompagna una proliferazione terminologica modellata sul cinismo pubblicitario, che tende a separare sempre più le parole e le cose, e a far prevalere le parole sui fatti. Oggi il fascismo significa, come ha scritto qualcuno, che alla fine vincono solo le parole. Parole orfane di fatti, svuotate di senso: basta pensare alla parola “libertà”, triturata nella casa, o nel polo, omonimo. Ma è il caso anche della parola “riformismo”, e degli aggettivi ad essa correlati, che riempie le bocche e i discorsi di Berlusconi e dei suoi portavoce: loro sono i riformisti; coloro che si oppongono sono i conservatori.
Federico Orlando (l’Unità del 19 aprile) ha portato alcuni esempi, perfetti e alla portata di tutti, della neolingua dell’attuale regime: “chiama riforma la distruzione dei diritti, chiama conservazione la difesa dei diritti, chiama amore la maggioranza, chiama odio l’opposizione”… Eccetera. Ora, è evidente che la parola amore, la parola odio e la parola libertà, per quanto siano parole-ombrello, sovrabbondanti e a volte goffe nel loro voler coprire una vasta pluralità di sensi, non possiamo lasciarle vilipendere a oltranza, né possiamo consegnarle definitivamente a questa destra di plastica: esse sono, per così dire, patrimonio dell’umanità. Ma la parola “riformismo”? Davvero la sinistra, l’opposizione, ci tiene così tanto? Davvero è da disdegnare quel titolo – conservatori – per qualificare delle battaglie di sinistra, per dire e fare qualcosa di sinistra? La cosa più sconfortante, confesso, è per me sentire parlare di “riformismo” da quei settori della sinistra che ancora stravedono per il luccicare post-moderno dell’innovazione, della flessibilità, e di tutto il lessico di quel lean management che significa soltanto libertà assoluta alle imprese, continuazione della rivolta tecnocratica dei ricchi contro i poveri avviata negli anni ’80 – e per favore “lasciateci lavorare”. Tra gli abusi più gravi di questa destra c’è poi la pretesa di chiamarsi liberali. E’ vero il contrario. Fu il padre del liberalismo, Benjamin Constant, che sedeva all’estrema sinistra del Parlamento sotto il Direttorio, a insegnare fin dalla fine del ‘700 come smascherare i totalitarismi a partire dalla politica del discorso: denunciando l’uso di parole vaghe, parole arbitrarie, parole lapidarie, parole astratte. Oggi diremmo: la pubblicità e gli slogan.
L’ironico e geniale scrittore Antonio Delfini scrisse alcune decine di anni fa il Manifesto del Partito Comunista e Conservatore. Ebbene, mai come in questa epoca, conservare assume un valore politico ”di sinistra”. Penso alle tematiche dell’ecologia e dell’ambientalismo. Penso alla difesa della memoria, contro l’oblio e ogni revisionismo della Storia. Penso all’umanesimo che consiste oggi nel preservare linguaggi e saperi alla fagocitazione del cosiddetto mercato. Penso agli studenti “non in vendita”, che vogliono salvare la scuola, l’istruzione e l’educazione dall’invadenza delle aziende. Penso alla cultura classica e inutile, cioè sovrana – il saper leggere, il saper pensare, il saper usare le parole, il saper criticare – minacciata dall’analfabetismo e dall’idiozia di ritorno alimentata dalla pedagogia berlusconiana delle tre I. Penso alla poesia e alle arti, alle cose che non servono a niente, a nient’altro cioè che alla qualità della vita e al benessere della mente. Penso alla sfera dei diritti, individuali e collettivi, che sono d’intralcio, esattamente come la democrazia, al dispiegarsi di una ideologia della flessibilità e della managerialità che vuole tutto piegare al proprio inflessibile volere, e chiama se stessa riformismo. Di fronte a questo blaterato riformismo, ci si sente paradossalmente vicini ai vecchi professori di latino e greco che difendevano i licei classici come modelli di vita e di pensiero: ora ci sembrano addirittura avamposti di una resistenza culturale all’omologazione e all’idiozia, e del resto è ormai evidente che è più rivoluzionario leggere Dante che i giornali. Sarebbe bello se la sinistra, da troppo tempo in colpa per essere stata di sinistra, la smettesse una volta per tutte di inseguire l’armamentario lessicale e concettuale, fatto di parole vuote, astratte, e quasi tutte anglofone, che ruotano intorno a modernità e riformismo, e lasciasse tutta la zavorra riformista alla destra. La vita è altrove.
La vita è metamorfosi, ma non ha nulla a che fare col vago e ondivago riformismo. Essere conservatori non significa essere contro i cambiamenti, ma seguirli secondo natura, che ha la sua propria flessibilità. Essere conservatori e di sinistra implica oggi la necessità e la responsabilità di riorientarsi, di inventare nuove parole e nuove vie per salvaguardare insieme la società e gli individui, la libertà e la felicità di ciascuno. Ogni altra politica è irrisoria, o è berlusconiana. Credo che ci sia molto da imparare dalla poesia. E dalla balbuzie. Dalla lentezza e dal pensiero. Dal tempo della vita. Una volta si diceva: il pane e le rose. “E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Tu sei responsabile della tua rosa…” Non è Rosa Luxembourg, è Saint-Exupéry. E potrebbe essere tratto dal nuovo manifesto di un partito di sinistra e conservatore.
Beppe Sebaste