Finisce l’anno, e tra gli auguri via mail ne ricevo uno con una buffa immagine: un calendario in cui appare il giorno 32 dicembre. L’ho mandata ad altri, senza pensare di come fosse inquietante e destabilizzante: un calendario con scritto 32 dicembre. Crollo di certezze e presupposizioni, di un mondo. Una lieve catastrofe, direbbero con un loro ossimoro i matematici della teoria del caos. Un’apocalisse. Apocalypsis significa rivelazione, svelamento. Poi ha assunto (via l’Apocalisse di Giovanni, presumo) il significato di catastrofe, che a sua volta vuol dire “rivolgimento”, soluzione. Catastrofe è anche il “ritornello” – di una strofa, di un rocchetto, di un nastro, di una filastrocca o di un racconto. Il panorama del mondo che si legge sui giornali, che ogni giorno rivolgono e reinventano il mondo, è catastrofe quotidiana anche se non rivelazione. Si ha anzi l’impressione che le migliaia di parole coprano, invece di “scoprire” (apocalyptein) la verità delle cose, che in sintesi è questa: la civiltà è un cumulo di macerie, la politica un pulviscolo che danza nella luce del crepuscolo, la democrazia un ammasso di rovine. Un piccolo esempio banale: giornali e lettori seguono la vicenda di un ex presidente del consiglio, proprietario di televisioni ecc., che avrebbe raccomandato un’attrice a un direttore Rai, e NON invece che quell’atto di raccomandazione, in sé ridicolo, coprisse e fosse funzionale all’acquisto (o corruzione) di senatori dell’area avversa, per far cadere un governo. La manipolazione delle notizie (o della loro ricezione) copre il fatto inaudito di una democrazia svenduta davanti al tempio. Il fatidico mercato non è solo il mostro e blob invadente rispetto a cui tutto della vita degli umani si soppesa e misura, ma il criterio del convivere, che ha soppiantato il rito laico e sacro che si chiamava prima politica, civiltà, democrazia. Tutto questo è oggi polvere, macerie.
Strano inizio per un articolo che si propone di segnalare, con ammirazione e rispetto, la mostra di un artista tra i più grandi e appartati del nostro tempo, Claudio Parmiggiani. Per chi non conosce la sua opera propongo un’analogia con lo scrittore Samuel Beckett: entrambi portatori di un silenzio costitutivo della loro voce, di un rigore e un’asciuttezza che sono la spina dorsale etica del loro lavoro estetico. L’opera ascetica, impressionante per severità, essenzialità e risonanza mentale di Parmiggiani, si compone spesso di materiali quali polvere, cenere, fuoco, fumo, fuliggine, disegnando in un paesaggio di rovine l’impossibilità di ricostituire un mondo perduto. Parafrasando il titolo di un’opera di Parmiggiani, il suo è un teatro della civiltà e della sua sparizione. La sua altissima poesia (non c’è parola più adatta) è paragonabile alla Ginestra di Giacomo Leopardi. Fuori dal cliché del pessimismo, essa invitava gli uomini a una solidarietà etica e morale, diciamo pure sociale, al cospetto delle rovine del Vesuvio, cioè di Pompei, contro ogni irresponsabile presunzione. Parmiggiani evoca analoghe ombre e sparizioni. Nelle sue sublimi “delocazioni”, ottenute inondando di fumo uno spazio chiuso, e facendo emergere, nel grigio uniforme della fuliggine depositata, le tracce bianche lasciate dalla sparizione delle cose, le tracce dell’assenza – che siano libri, quadri, bottiglie, o meglio ex libri, ex quadri ecc. Lo spazio stesso è materiale dell’opera. Nel luogo che sopravvive, “un genere inedito dell’inquietante estraneità”, cioè del perturbamento di cui parlava Freud, “la storia della pittura incontra i fantasmi di Hiroshima” (Georges Didi-Huberman).
La mostra di dodici stanze, dodici opere, che si presenta a Pistoia, presenta altri materiali, vetri, metalli, libri (bruciati), pane, e ancora aria, fuoco, calchi di gesso di una venere antica, ali colorate di farfalle, ecc. Materiali umili, semplici, all’apparenza casuali: “Uso tutto quello che trovo come chi, per difendersi, afferra il primo oggetto ce gli capita tra le mani, come un’arma…”, ha detto Parmiggiani. La vera opera è il luogo, che da fisico diventa mentale, ma al tempo stesso pulsa di vita, con “una voce, un cuore che batte dentro lo spessore dei muri”. Parmiggiani plasma fantasmi che sono tutt’uno con la materia. Ma polvere e cenere sono anche (il filologo Giovanni Semerano docet) quell’apeiron che per secoli fu idealisticamente tradotto “infinito”, ma che non è che l’innumerevole dei granelli di sabbia del deserto (che l’infinito sia sinonimo di polvere, è una verità fisica e metafisica che ancora ci percuote).
Impossibile non vedere la fortissima valenza etica delle opere di Parmiggiani. Non solo perché conosco da anni la sua coerenza, e ho condiviso (a Parma) alcune battaglie estetiche e politiche – per esempio contro le opere del cosiddetto arredo urbano, contro le infamie che certi assessorati alla cultura commettono sotto l’ombrello dell’arte pubblica. Parmiggiani, che del silenzio dell’opera fa un atto politico altissimo, si è fatto portatore in numerose occasioni di “un rifiuto e una reazione a quel linguaggio inaccettabile che fa del clamore, del gratuito e della superficialità il principale obiettivo artistico”. Sottovalutare la dimensione politica della sua opera equivarrebbe a leggere i versi finali della Ginestra di Leopardi come una descrizione suggestiva di un fiore del deserto, senza chiedersi che cosa è fiore, che cosa è deserto, che cosa è un fiore che si ostina, con naturalezza mai esibita, a esistere, a consapevolmente profumare in un deserto. “Mai come oggi, ha detto ancora Parmiggiani, si è parlato tanto di cultura, ma di una cultura che non coincide con la vita e che, anzi, è fatta per dettare legge alla vita”.
Le opere di Parmiggiani procedono per metonimia, mai per metafora. Per sintagma, contiguità, legame, esperienza (cioè vita), e non per paradigma, somiglianza, astrazione, modelli. E questo uso della metonimia (anche la sineddoche), questa scelta, è già uno stile politico. Spesso i suoi enunciati sono paradossali, e il paradosso non è una metafora, come non lo è l’utopia: solo una contingenza storica li definisce impossibili, ma possono essere un programma: poetico, politico. Apocalypsis cum figuris è uno di questi. Già il titolo è un ossimoro. La sua apocalisse, la sua “rivelazione”, lungi dall’essere iconoclasta, svela e scopre dichiaratamente con figure. Forse ogni rivelazione, ogni svelamento, è una catastrofe (e la tradizione ha consegnato a una disciplina divenuta oggi innocua, la filosofia, questo compito speciale). In questo senso l’arte di Parmiggiani è filosofia con figure. “Catastrofe” rimanda a un evento terribile e funesto, ed era tecnicamente quella parte della tragedia classica in cui avviene lo scioglimento dell’intreccio, appunto una sciagura, la morte annunciata dell’eroe, da cui scaturisce per chi guarda la catarsi. E segnalo una curiosità storico-lessicale: la parola “catastrofe” designò a lungo, nel Novecento, anche l’avvento “non evolutivo ma violento” del comunismo, o “programma socialista collettivista” (si veda il Dizionario moderno di A. Panzini, prima ediz. 1905). Anche il comunismo, almeno pare, è oggi polvere e macerie.
“Figura”, insegnava Auerbach, è uno strumento interpretativo di epoca classico che consiste nello stabilire tra personaggi o eventi storici un legame particolare di “prefigurazione” e di “adempimento” di un altro evento passato o futuro, quasi una profezia, o utopia (l’esempio di Adamo, “figura” o prefigurazione di Cristo). Quando Parmiggiani dichiara la propria opera essere senza tempo, credo si riferisca al carattere di “figura”. E’ perfettamente consapevole della politicità dell’opera dell’artista: “Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi? Il problema dello spazio dell’opera significa non solo porsi il problema di un spazio formale, estetico ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico, dentro il quale l’opera andrà a situarsi”.
Ecco forse in parte chiarito il mio strano avvicinamento all’opera di Parmiggiani. Tanti ne hanno notato la dimensione luttuosa e spirituale. Sulla prima parola ha risposto lui stesso: “Lo spirituale che alcuni intravedono nel mio lavoro lo chiamerei semplicemente una convinzione che fa parte di una visione, un misticismo senza fede. Non penso a un’arte religiosa ma a una religiosità dell’arte, una religiosità di cui sembra si sia smarrito completamente il senso”. Sul lutto, parente della nostalgia, ha scritto Didi-Hubermann proponendo di collocare Parmiggiani nella tradizione, mai chiusa, del romanticismo. Sono d’accordo, se per romanticismo si intende una nostalgia di qualcosa di irrimediabilmente perduto, una tensione senza consolazione e senza requie, un’accettazione stoica come appunto la Ginestra di Leopardi. O come quella di cui ha scritto Giorgio Messori nel suo romanzo sulla nostalgia: “Enea è il vero eroe della nostalgia, molto di più che non Ulisse e il suo ostinato struggimento per la casa. Perché la nostalgia è un sentimento irrimediabile, non prevede un ritorno, non c’è alcun ritorno. […] Per questo mi chiedo come mai, nel linguaggio corrente,sia entrata la parola odissea e non eneide, che potrebbe descrivere meglio la storia di tanti. Non credo sia un problema fonetico. Più probabile sia la difficoltà d’accettare la nostalgia come sentimento irrimediabile”.
Nel catalogo della mostra di Pistoia, Jean Clair nota il carattere contemplativo delle sue opere. Contemplativo viene da tempio, e contemplare equivale a recintare uno spazio come tempio. Fondare un tempio nello spazio è il fondamento dell’atto di contemplare. E’ analogo all’atto del sacrare, che significa separare – cose, gesti, o persone – dalla sfera dell’uso comune (viceversa, profanare sarebbe restituire cose, gesti o persone all’uso comune). A sua volta la profanazione costituirebbe un’altra sfera del sacro, quella del valore d’uso, o del gioco, o dell’arte, della fondazione di ciò che è comune, dell’idea stessa di comunità e, perché no, di comunismo. Non è improprio attribuire a riti della politica e della democrazia, antichi come le religioni, una sacralità. Ma che ne è del contemplare, del sacro e dell’arte, se la stessa civiltà, la democrazia, la politica, sono implosi e in frantumi, in una generale dissolvenza, come fuliggine e polvere? Le opere “senza tempo”, l’Apocalissi con figure di Parmiggiani sono forse questo lutto, nostalgia dell’irreparabile che si deposita come fuliggine nella nostra memoria, eppure ci cambia, trasforma gli osservatori in possibili soggetti di una nuova contemplazione, una nuova possibile fondazione. Fondazione urgente di valori da condividere.
Ha detto ancora Parmiggiani, inaugurando all’Avana la sua mostra Silenzio a voce alta, 2006: “L’arte deve ritornare a essere arte. Nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera. Poco è rimasto di quella infinita bellezza. Ora non siamo più capaci nemmeno di pregare. Camminiamo come ciechi tra le rovine”.
Beppe Sebaste
(Uscito su l’Unità, 31 dicembre 2007)