
Nel borgo di Amelia si inaugura una mostra deambulatoria, camminante, diffusa. Si chiama Sentieri, e farà rivivere il paese sempre più pieno (sembra un gioco di parole) di spazi vuoti e disabitati. Aprirà e allargherà i confini grazie alle opere che creeranno questo spazio e lo renderanno visibile: le opere di 34 artisti, molto dei quali cinesi, quasi tutti under 30. Sul catalogo appare questa mia riflessione che vi offro. Per saperne di più, questo è uno dei link possibili: http://www.ansa.it/canale_viaggiart/it/regione/umbria/2018/03/29/festival-sentieri-ad-amelia_018bd9ea-7c0a-4614-b830-0c9fdecb3e2e.html – e questo è un altro: http://www.umbriaon.it/amelia-ecco-sentieri-arte-nel-centro-storico/
Sentieri selvaggi, sentieri interrotti
Chissà se è vero che “sentiero” viene da sentire (come pensiero da pensare), come mi balenò in mente durante un pellegrinaggio per sentieri himalayani. Di fatto, niente è più estraneo al camminare che l’intelletto. Il di-vagare della mente (che non è già più la mente) associato a quello dei piedi prende la forma di un sentire vicino allo stato contemplativo della rêverie, cioè trasognamento, visione dell’anima.
Tralascio per ora il ventaglio di sensi che la parola sentiero mi evoca, per calcare appunto questo, di sentieri: un’educazione all’arte e dell’arte affidata alle opere di giovani artisti situate nel tessuto abitativo di un paese, negli spazi vuoti e per questo oggi ri-abitati. Un percorso e un progetto voluto dall’artista Claudio Pieroni, docente all’Accademia di Roma e residente nel comune di Amelia.
Il cuore del progetto si potrebbe sintetizzare così: ricordarci, dopo una lunga dimenticanza, che l’arte, sotto qualsiasi forma e definizione, non espone mai solo se stessa, ma anche lo spazio in cui si trova e si mostra. E questo risveglio ne fa già un esempio di educazione civica.
L’arte “fa vedere” in molti modi. Acuisce lo sguardo, alza la soglia dell’attenzione non solo visiva, e quindi della consapevolezza di abitare. Nella continua dialettica tra arte e spazio, in cui si determinano reciprocamente come se fossero l’una l’estensione o l’intensificazione necessaria dell’altro, esponendo se stessa l’arte ci rende visibili i luoghi in cui essa prende forma come se li vedessimo per la prima volta, ci fa riscoprire lo spazio di fronte a cui siamo divenuti ciechi per abitudine. A volte, nel mostrare i dettagli e gli interstizi del mondo, l’arte assolve già interamente il suo compito, al limite anche in assenza di opere (l’opera è lo sguardo). Basterebbe questo per provare un’ammirata gratitudine per Sentieri, una mostra itinerante e imprevedibile in un paese già magico e sorprendente come Amelia, sentieri dell’arte di pittori giovani e eccentrici, in senso sia estetico che spaziale. Il fatto che molti di questi giovani artisti siano cinesi riporta alla mente quel sentiero per eccellenza, paradigma del sentiero, che fu per secoli la via della seta, che non a caso univa Occidente e Oriente.
Ed eccomi tornato, di divagazione in divagazione, al sentiero himalayano del sentire, cioè dell’anima. Ma non riesco a sbarazzarmi così, con una scrollata di spalle, di decenni di educazione al pensare. Del resto, siamo ancora capaci di guardare, di pensare, di abitare? Nel mio extra-vagare su e giù per Amelia, tra pietre ciclopiche e cisterne romane, palazzi medievali e chiostri segreti, un po’ turbato dalla bellezza disabitata di tanti edifici, mi incanto a seguire altre diramazioni dello stesso “pensiero”. Una è Sentieri selvaggi – il celebre western di John Ford del 1956, il cui titolo originale è però The Searchers, “I Cercatori”. L’altra è Sentieri interrotti (1950), la famosa opera della svolta (ripensare l’essere in relazione esclusiva al linguaggio) del filosofo Martin Heidegger, il cui metodo degli Holzwege, o “sentieri che non portano da nessuna parte”, è frutto dell’esperienza del perdersi nei boschi e trovarsi improvvisamente davanti a un cul de sac, uno sbarramento, un’interruzione, una fine.
Se i sentieri selvaggi mi ricordano il felice nomadismo di Gilles Deleuze, le sue “linee di fuga”, i sentieri interrotti, invece, conducono al compito della filosofia secondo Jacques Derrida – trovare un passaggio dove non si dà passaggio. Entrambi, sentieri interrotti e selvaggi, mi sembrano allora una perfetta didascalia del gioco sublime dell’arte contemporanea (di ogni tempo). Trovare un passaggio – un sentiero – là dove non si dà passaggio. La possibilità dell’impossibilità come via, il compito al tempo stesso più intimo e più pubblico dell’arte (e della letteratura).
Alcuni anni fa, all’epoca di un’esposizione intitolata “Apocalisse con figure”, il grande artista Claudio Parmiggiani ci offrì questa domanda:
“Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi? […] Significa non solo porsi il problema di uno spazio formale, estetico, ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico, dentro il quale l’opera andrà a situarsi”. Gli fa eco involontariamente una domanda terribile che poneva in un suo libro Anna D’Elia: “E se fossimo stati già tutti deportati e non ce ne fossimo neppure accorti? E se i nuovi campi di concentramento fossero diventate le nostre stesse case, le nostre città, la nostra lingua?”
Apocalypsis significa rivelazione, svelamento. Di che cosa? Del fatto che – penso mentre percorro il sentiero della mostra diventando così, con i miei passi, co-autore dell’evento, rapito dal cielo, dalle ombre, dai pulviscoli di luce che esce o entra dagli interni vuoti eppure colmi – lo svelamento, la vera opera è sempre il luogo, fisico, spirituale e pulsante di vita. Con una voce e un cuore, direbbe ancora Parmiggiani, che battono dentro lo spessore dei muri.
marzo 2018