
L’inverno scorso mi trovavo a Calcutta (Kolkata) per via di un sogno che avevo fatto. Nel sogno passeggiavo con delle persone dopo una cena, quando mi accorsi di avere lasciato la giacca e la borsa con tutte le mie cose al ristorante. Salutai e tornai indietro a prenderle.
Ma mentre camminavo da solo mi accorsi dell’insolita scioltezza delle mie gambe, della temperatura deliziosamente mite, e provai un intenso benessere a semplicemente camminare. Nello stesso tempo mi accorgevo che non mi importava nulla né della mia giacca né della borsa con tutte le mie cose. Non avevo nessuna voglia di andare a riprenderle, e continuai beatamente a camminare in un grande spazio aperto.
Prima di svegliarmi mi dissi: “adesso vai ad abitare a Calcutta, non devi farti trattenere qui da nulla”. Così feci, almeno per qualche mese. “Calcutta” (Kokata) era una metafora, certo, ma mi piace anche il senso letterale delle storie, e questa soprattutto mi piaceva incarnarla. Ero stato diverse volte in India, ma mai a Calcutta.
Eccomi così ai primi di dicembre in un’automobile con autista nel traffico caotico dell’ex capitale dell’India (fino al 1911, anno in cui gli Inglesi ripararono nella meno bellicosa e più governabile New Delhi), e oggi dello stato federale del Bengala. Non che mancassero gli spazi vuoti in cui camminare, specialmente lungo l’Hooghly, un braccio del Gange prima della foce, o nei vasti parchi, ma in quel momento stavo accompagnando il console italiano (un uomo di cultura, come si diceva una volta) a casa del fotografo Nemai Ghosh.
Considerato non solo il cronista ma il cantore di Calcutta, di Nemai Ghosh, che aveva appena compiuto ottant’anni, avevo sfogliato con ammirazione alcuni dei suoi libri: fotografie dell’immensa ramificata città, delle architetture neoclassiche e coloniali che si alternano ai piccoli slum urbani, e soprattutto della gente: ritratti di poveri e di persone comuni, ma anche di artisti, personalità del teatro, del cinema e della letteratura bengalesi. E poi un libro dedicato al celebre e innovativo regista di cinema Satyajit Ray (A Vision of Cinema).
Avevo saputo dal console che Nemai Ghosh aveva incontrato Michelangelo Antonioni e gli aveva fatto alcuni ritratti insieme a sua moglie Enrica, nella loro stanza all’hotel Taj Bengal, quando nel 1995 vennero a Calcutta per presentare Al di là delle nuvole, l’ultimo film del cineasta italiano. In precedenza Antonioni aveva offerto queste parole al libro che Nemai Ghosh dedicò a Satyajit Ray: “La mia ammirazione per lui è totale. Gli sono molto grato, per l’acuta e profonda comprensione che i suoi film mi hanno dato dell’India”.

Sapevo dei vari viaggi in India e in Oriente di Michelangelo e Enrica Antonioni, a partire da quello nel 1977, quando al festival di cinema a Delhi si formò un formidabile quartetto – Satyajit Ray, Akira Kurosawa, Elia Kazan e Antonioni. Una bellissima foto che circola anche su Internet, fatta da un fotografo ufficiale di cui ignoro il nome, li raffigura (tutti meno Elia Kazan) durante una pausa del festival, in piedi e ignari anche del fotografo, con le spalle al Taj Mahal, preferendo guardare un paesaggio informe dalla parte opposta. Li si vede da lontano, ma li si riconosce bene: Ray è quello che sembra un europeo, Kurosawa un americano, e Antonioni è l’unico che sembra un indiano. Fu durante quel viaggio che Enrica e Michelangelo andarono al Khumb Mela, il sacro pellegrinaggio indù a cui si spostano milioni di fedeli e di sadhu, che si svolge a rotazione in una delle città bagnate da fiumi sacri. (Quell’anno, come Maha Kumbh Mela che avviene ogni dodici anni, si celebrava a Allahabad. Indira Gandhi mise loro a disposizione un elicottero per arrivarci).
Nemai Ghosh aveva fotografato Antonioni anche a Roma, quando dipingendo i suoi coloratissimi quadri il regista continuava il suo speciale cinema muto. Il console sapeva che avevo avuto anch’io il privilegio di frequentarlo, e avevo scritto sul catalogo della mostra che si inaugurò a Roma nel 2006, il giorno del suo 94° e ultimo compleanno (il mio testo fu anticipato su la Repubblica di domenica 27 agosto 2006).
Scesi dunque dall’automobile del console e mi trovai con lui in una specie di isola fuori dal traffico principale, strade secondarie illuminate da mille commerci, rese fiabesche dal buio appena sceso. Calcutta è una città enorme, trafficatissima (spider city, la definì il poeta anglo-indiano Dom Moraes), dove attraversare la strada può essere la più pericolosa delle azioni. Ma anche dove inaspettatamente si aprono zone molto calme, come villaggi incastrati tra i viali intasati di auto.

Sono i luoghi in cui abitano i più poveri, per terra e sotto dimore improvvisate, e dove, confesso, ho sempre provato sollievo. Si respira meglio, sono delle specie di ZTL naturali, senza macchine né rumori, con viceversa una densità di devozioni, tempietti e divinità che soddisfano ogni bisogno di prostrarsi, cioè di innalzarsi. A Calcutta ho sentito spesso che i più poveri fossero i più ricchi, non solo perché esentati dalla fretta e dai tubi di scappamento, ma per il lusso dell’offrire il loro tempo alla contemplazione del Divino e del vuoto, mentre i ricchi corrono come il bianconiglio per inseguire vernissages e altre mondanità, quando non devono correre come poveracci per lavorare.
Il luogo in cui ci trovammo il console e io non era proprio così, ma ci infilammo a piedi in un vicolo così stretto da far sembrare larghi quelli di Venezia o dei paesini medievali dell’Italia centrale. Mentre ci inoltravamo in quel corridoio angusto tra le case, l’idea di Venezia mi ricordò Corto Maltese (avrei capito dopo perché mi fosse venuto in mente, come una premonizione, l’eroe di Hugo Pratt), finché si aprì una piccola corte e in essa l’ingresso della casa del fotografo, che ci aspettava sui gradini davanti alla porta.

Lasciammo fuori le scarpe ed entrammo in una stanza dai colori luminosi, azzurro soprattutto. Su una parete riconobbi il regista Satyajit Ray in una fotografia di scena, e tra i molti libri di cinema negli scaffali, con grande meraviglia riconobbi il catalogo della mostra di Antonioni Silenzio a colori. Lo sfogliai, notai con emozione che nella versione inglese del mio testo erano state sottolineate varie frasi. Ebbi più che un presentimento. Visualizzai con la memoria, al pranzo di compleanno di Antonioni ospiti della Casa del Cinema a Villa Borghese di Roma, che tra i pochi che eravamo c’era anche un fotografo indiano trafelato. Gli avevo parlato brevemente, era arrivato con l’aereo da Delhi quel mattino stesso.
Il console ci presentò, beviamo un herbal tea con i consueti involtini dolci e salati che in una casa indiana non si possono rifiutare, poi Nemai Ghosh ci mostrò da una cartella le fotografe scattate a Roma al regista italiano, e capii definitivamente cosa c’entrasse Corto Maltese. Le storie di Hugo Pratt, come quelle di Alvaro Mutis, raccontano di riconoscimenti, amicizie ritrovate, epifanie, forse agnizioni.
Saltò fuori che non solo Nemai Ghosh era il fotografo che conobbi quel 29 settembre 2006, a pranzo e poi al vernissage della mostra di Antonioni a Piazza di Pietra; ma in almeno cinque o sei delle prime foto della serie c’ero anch’io. Provai cioè la sorpresa di scoprire che in quel quartiere impenetrabile per uno straniero, in quella casa così indiana, anzi così tipicamente “old Kolkata”, alla fine di un vicolo insospettabile e invisibile, ero presente da almeno otto anni in immagine senza saperlo.
Che fosse un’altra epoca lo mostravano le foto, già per questo struggenti: sembrava fossero passati decenni. Non perché fossi più magro o avessi capelli più neri o sembrassi più felice. La magia delle foto di Nemai Ghosh era far sembrare l’anno 2006 come un anno senza tempo, magari uno qualsiasi degli anni Cinquanta.

Nemai Ghosh divenne fotografo quasi “per caso”. La sua passione per il cinema, dopo quella per il teatro, si riversò nella fascinazione immensa che su di lui esercitò Satyajit Ray, di cui non solo fu fotografo di scena per venticinque anni, ma fotobiografo, il suo “(James) Boswell con camera”, come scrisse scherzosamente lo stesso Ray.
La svolta, trionfale al suo ritorno in India, fu quando negli anni ’80 Cartier Bresson lo invitò a Parigi, dopo avere visto alcune sue fotografie. Lo presentò al direttore dei Cahier du Cinema dove pubblicò le prime foto, naturalmente con Ray e i suoi set come soggetto.
Kolkata, un libro recente di Nemai Ghosh, è quasi un romanzo per immagini che attinge dall’inesauribile archivio di un cronista con la Nikon fedele e amoroso. È vero, come hanno detto in tanti, che Calcutta è per lui quello che Parigi era per Cartier Bresson. Nata in onore alla dea Kali (Durga, nel suo volto amorevole di Madre Divina, anche se micidiale per i suoi nemici), Calcutta è una stratificazione di segni i cui estremi sono l’opulenza dello stile coloniale inglese – che sopravvive nei suoi numerosi club quasi fuori del tempo – e nel cliché della miseria enfatizzata in passato da Madre Teresa di Calcutta, le cui suore andavano a cercare e raccogliere i morenti dalle strade (solo i morenti) per farli trapassare nella loro Casa delle Missionarie della Carità. Entrambi questi cliché nascondono le doti straordinarie di disponibilità e resilienza di questa città in cui nacquero tra gli altri Rabindranath Tagore e Sri Aurobindo, e che accolse nel corso della storia recente almeno due ondate migratorie di milioni di disperati, soprattutto dal Bangladesh, in fuga da catastrofi politiche e naturali una dopo l’altra.
Nel testo introduttivo al libro Sankarlai Bhattacharjee fa i nomi di James Agee e Walker Evans, per il mescolare vita ordinaria e ritratti di “famosi”, e quello di Paul Strand per la libertà di movimento. La fotografia di Nemai Ghosh ha la saggezza di restare equidistante dagli opposti esotismi. Citando Susan Sontag, “la povertà non è più surreale dell’opulenza”.
Tra i ritratti della Calcutta artistica e culturale di Ghosh ci sono i fratelli Shankar, Uday il danzatore e coreografo e Ravi, il maestro di sitar. Lo scrittore e regista teatrale Ritwik Ggatek, traduttore di Brecht e Gogol, e tutti i filmaker che trasformano le vie della città in allegri set cinematografici, da Ray (leggendaria la foto di lui che gira con la cinepresa dal bagagliaio di un’Ambassador in movimento), a Mrinal Sen e M.S. Sathyu che dirige Anil Kapoor, o il compianto Patrick Swayze a bordo di un rickshaw trainato da Om Puri in corsa nel film tratto dal libro di Dominique Lapierre, La città della gioia.
Nemai Ghosh ci parla del progetto di una mostra su Antonioni a Calcutta. Che bel soggetto, penso – Michelangelo Antonioni, Calcutta, il cinema, l’India, la fotografia – si meriterebbe un libro. Come se mi ascoltasse i pensieri, l’anziano fotografo ci racconta che il suo editore non vuole più fare il libro che aveva concordato con lui su Antonioni. È stupito. Io no. Di questi tempi sembrano non esserci mai i soldi per fare le cose che mi piacciono.
Nel corso dell’anno si farà una mostra a Calcutta con le foto che ritraggono Antonioni pittore, il silenzio nella sua casa sul Tevere a Tor di Quinto, ore e giorni a dipingere il vuoto, a disegnare ellissi e curve, geometrie non euclidee e coloratissime. Dipinti da descrivere con le stesse parole che usavamo per dire la sintassi narrativa dei suoi film: l’eloquenza del vuoto, il suspens, la “sincope del senso”, come disse Roland Barthes paragonando Antonioni a Braque e Matisse, e all’estetica dell’Oriente.
Sarebbe troppo doloroso dire a Nemai, paladino della memoria, che in Italia i giovani conoscono ormai pochissimo Antonioni, che si sta sradicando anche questa memoria recente, che la sua rivoluzione estetica e narrativa, privilegiare i tempi morti, gli interstizi delle avventure, è oggi un ossimoro, come il silenzio a Calcutta.
(testo in uscita sulla rivista trimestrale il Reportage (diretta da Riccardo De Gennaro) n. 22)

caro signor Sebaste,
mi chiamo Vittorio Ferorelli, sono un giornalista e scrittore e collaboro con la redazione di “RadioEmiliaRomagna”, il podcast della Regione Emilia-Romagna, una radio web che, per la sua natura istituzionale, non ha né introiti pubblicitari né scopi di lucro (www.radioemiliaromagna.it/).
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Mi occupo in particolare della rubrica “Racconti d’autore”, che ogni settimana propone la lettura musicata di un breve testo sia in modalità streaming, sia in formato mp3 scaricabile, citandone dovutamente la provenienza e l’autore (www.radioemiliaromagna.it/programmi/racconti-autore/default.aspx).
Tra gli autori pubblicati: Michelangelo Antonioni, John Berger, Edmondo Berselli, Attilio Bertolucci, Italo Calvino, Camilla Cederna, Gianni Celati, Silvio D’Arzo, Pier Paolo Pasolini, Sandra Petrignani, Renato Serra, Roberto Roversi, Paul Strand, Pier Vittorio Tondelli, Cesare Zavattini.
Le scrivo per chiederle se può autorizzarmi a pubblicare gratuitamente, nel prossimo autunno, il suo bellissimo articolo intitolato “Silenzio a Calcutta (per Michelangelo Antonioni e Nemai Ghosh)”.
In attesa della sua risposta, le invio un saluto cordiale da Bologna.
Vittorio Ferorelli
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Gentile Ferorelli, leggo con molto ritardo il suo messaggio, mi dispiace. Semopre meglio scrivere un e-mail… La mia risposta è comunque sì, se ovviamente cita la fonte (per esempio anche questo blog) e dà un minimo di presentazione dell’autore. Grazie, un cordiale saluto, b. s.