(intervento su Israele, in forma di lettera a Furio Colombo, uscito su l’Unità il 13 aprile 2002)
Caro Direttore, io sono tra quelli, ebrei e non ebrei, che riconoscono un debito profondo e inestinguibile all’identità ebraica, la quale ha insegnato nei secoli, a prezzi altissimi, che proprio perché si è diversi si può essere uguali (nei diritti). Ebreo è il paradigma dell’uomo libero che non esito a definire eroico: cioè dello «straniero», nel senso in cui lo definiva il sociologo Georg Simmel (ma a suo modo anche il filosofo Jean-François Lyotard): colui che arriva oggi, e che domani non parte, lo straniero che arriva e che offre, uguale ma diverso, la propria modalità di interazione, di relazione. Ebreo è allora anche paradigma di chi ha insegnato il valore e il diritto della «differenza», e non solo in senso filosofico.
Ma sono anche tra coloro, ebrei e non ebrei, che hanno sempre indicato nell’insistenza della propria identità, nell’affermazione rigida di un «noi» (noi bianchi, noi cristiani, noi europei, noi padani, e via dicendo) il germe di una violenza e di un’esclusione che può arrivare ovunque, anche all’atrocità. Oggi si dice: noi Israeliani, noi Palestinesi. E la cosa più onesta è lasciare parlare i fatti. I fatti dicono, anzi urlano, che la convivenza tra identità diverse è ineluttabile, come la pace e la ricchezza della (nella) diversità. Senza che un «noi» giustifichi l’annullamento dell’altro. Facendo anzi di ogni «noi» un’entità politica, non militare. Politica è questo: l’esercizio di una disseminazione del noi, dei pronomi, dei soggetti, in una continua e mutevole aggregazione. Potrebbe essere una «gaia scienza». Di fatto, la sua eclissi significa sempre barbarie e lutto.
Sabato scorso ero a Roma, e ho attraversato con un’amica, Lisa Ginzburg, la Piazza del Popolo. Volevamo incontrare gli «ebrei per la pace», di cui avevamo intravisto uno striscione, per testimoniare l’urgenza politica di una pace. Ma abbiamo sentito un ovvio disagio. La piazza era decisamente schierata: non contro la violenza, ma contro uno dei soggetti: Israele. Eppure, scrivo questa sintetica riflessione per non lasciare svanire la possibilità di un discorso, per non lasciare al disagio l’ultima parola. Israele è una democrazia. Come l’Italia, come la Francia, come gli Stati Uniti, come gli altri Paesi d’Europa. Cioè come tutti i Paesi che osiamo criticare, anche aspramente, sapendo che la critica anche aspra è il sale della democrazia. Non si può dire lo stesso di gran parte dei Paesi arabi. E pare che non si possa dire lo stesso neppure della Palestina e di Arafat. Ma è proprio delle democrazie non accettare censure, non criminalizzare le critiche (obiezione che sperimentiamo tutti i giorni in Italia). Per questo penso che il presunto antisionismo di tanti giovani pacifisti detti «a senso unico», che scoprono la politica e i diritti umani con critiche unilaterali e appassionate a Israele, andrebbe rovesciato in qualcosa d’altro: qualcosa come una prossimità, il segno di un rispetto e di un’amicizia. Addirittura di una fratellanza. È questo lo sforzo di ascolto e comprensione che dovrebbero fare non dico gli Ebrei (è ovvio) ma i democratici israeliani: vedere nelle manifestazioni di tanti giovani europei e italiani contro la politica di Israele la rivendicazione di un’uguaglianza – nei diritti, nella politica, nell’esercizio della democrazia che li rende prossimi. Le aspre critiche al governo Sharon, un primo ministro che sembra non conoscere la politica ma solo soluzioni militari e che per legittimarle fa leva al perenne sentimento di angoscia del popolo ebraico, non sono rivolte al popolo ebraico, ma al suo governo. E avvengono pubblicamente proprio perché la democrazia di Israele è sentita come un paese amico, come un paese fratello, come un paese, diciamolo, nostro: uguale (anche nella “differenza”) a noi. Criticare Israele non è, per molti dei giovani pacifisti (e presunti antisionisti) diverso dal criticare l’Italia, quando sospende i diritti democratici, e dal criticare gli Usa quando pretendono di farsi giustizia da sé con i cacciabombardieri, o quando dimenticano di essere portatori di quella «superiorità» democratica che ne legittimerebbe le azioni torturando i prigionieri a Guantanamo. È proprio perché sanno distinguere il «terrorismo» dall’identità di uno Stato democratico che i giovani, o almeno la maggior parte di essi, critica con tale passione la politica israeliana di Sharon, e porta come vessilli dell’offeso le kefiah palestinesi: perché sente Israele come proprio, non come estraneo. Non si critica così chi non si conosce, chi non si sente prossimo, e infatti nessuno capisce quasi nulla di analoghe violenze e massacri che avvengono ogni momento in ogni parte del mondo, in Africa e in Asia: perché non si hanno riferimenti personali, culturali, democratici che possano fare da bussola e da riferimento. Oggi tutti sanno che l’ebreo si è fatto Stato: stato in luogo, dopo secoli di erranza, di “moto a luogo”. Questa identità non è in discussione ormai da quasi nessuno. Continuare a stigmatizzare chi protesta contro la politica israeliana a lungo andare diventa una pessima scusa. Così come rinfacciare il terrorismo del nemico, mentre con le proprie azioni si stempera la propria differenza, e si svilisce la democrazia. È giusto protestare contro questo. Ben oltre la distinzione tra Ebrei e Israeliani, gli amici di Israele devono abituarsi ad essere accettati nella comunità democratica internazionale, ciò che comporta critiche, responsabilità, relazioni, ovvero politica. E che ineluttabilmente scioglie, in qualcosa di più vasto, quel «noi», quell’ossessione dell’identità che, abbandonata a se stessa, non può che ristagnare in una pesante, perenne armatura.
Beppe Sebaste
(uscito su l’Unità, 13 aprile 2002)