“Ricordo il nome di diciassette fiori… ” (Scrivere – e vivere – al tempo dell’Alzheimer)

disegno Lettura 2

“Il morbo di Alzheimer, abbiamo scoperto, non è più solo una demenza “senile”, ma è in aumento tra la popolazione ‘giovane’. Contemporaneamente ci siamo accorti – ma questo è un argomento che ci porterebbe molto lontano, o forse troppo vicino alla vita di ognuno – che la sindrome di Alzheimer presenta molte analogie con lo stato in cui versa la nostra attuale civiltà – degrado del linguaggio, afasia, perdita della memoria, stasi, etc. – , e soprattutto la società italiana, a cui questa diagnosi si adatta oggi perfettamente” (Stefania Scateni, Beppe Sebaste).

Crediamo ormai di poter postare e offrire qui lo scritto a quattro mani uscito – vera Epifania  – il 6 gennaio scorso su La Lettura, supplemento del Corriere della Sera. Alcune radio ci sono tornate su, citando frasi della nostra scrittura in progress una testimonianza e nient’altro. Ma, a giudicare dalle reazioni, una testimonianza di cui tanti altri possono giovare ed essere stimolati a offrire la propria. Eccola:

disegno la lettura

Conosco il nome di diciassette fiori

 Stefania ha meno di sessant’anni, e ha avuto una diagnosi di Alzheimer “precoce” dopo quasi due anni di tentennamenti, silenzi dei medici, attese in stanze d’ospedale e uggiosi “test” neuropsicologi per misurare il decorso dell’innominabile malattia. Alzheimer deseases è la locuzione ufficiale, AD, dietro la quale c’è il nulla. Arnaldo Benini, un neurologo assai critico con la credenza tuttora infondata che le proteine tau e beta-amiloidi annidate nel cervello siano la causa della demenza, si chiede a cosa servono esami spesso sfiancanti “per diagnosticare la demenza negli stadi iniziali, quando nulla di specifico è a disposizione per impedirne la progressione”. Ma forse questa malattia non è cosa che ha a che fare solo con i medici.

Il morbo di Alzheimer, abbiamo scoperto, non è più solo una demenza “senile”, ma è in aumento tra la popolazione “giovane”. Contemporaneamente ci siamo accorti – ma questo è un argomento che ci porterebbe molto lontano, o forse troppo vicino alla vita di ognuno – che la sindrome di Alzheimer presenta molte analogie con lo stato in cui versa la nostra attuale civiltà – degrado del linguaggio, afasia, perdita della memoria, stasi, etc. – , e soprattutto la società italiana, a cui questa diagnosi si adatta oggi perfettamente.

°°°

Tutto iniziò con una farfalla. Una farfalla che non riuscivo a disegnare. Lavoravo a un cartone colorato da tante farfalle, come un prato punteggiato di colori, ma riuscivo a disegnare soltanto la metà dell’insetto. Poi disegnai una testa vista da dietro senza corpo, metà della quale era vuota. Due mesi dopo il mio corpo era “sparito”. Lo avevano rubato i medici? Lo avrei riavuto? Intanto mi chiedevo: “io chi sono? e che cosa era (cosa è) “io”? Habeas corpus è da allora la mia preghiera: potermi ricomporre come con il Lego, le costruzioni dei bambini.

Trasformare la disgrazia in una grazia: lasciare andare le idee, i pensieri, le voluttà nascoste e artificiali, i belletti e i profumi. Quello che serve è talmente poco che sta nel palmo di una mano, è etereo. O come i fiori. I fiori riesco ancora a disegnarli. Potrò continuare a parlare con queste creature profumate, amorevoli, generose? Ieri è stata una brutta giornata perché non ho saputo dire il nome di un fiore che amo – e mi piacciono tutti. Scrivo allora i fiori di cui ancora so il nome: margherite, rose, campanelle, fiore di limone, rincosperma, glicine, fiori di loto, orchidea, tulipano, ortensia, gardenia, geranio, peonia, stella di natale, camelia, ciclamino, giglio… Sono loro a portarmi via dai pensieri buî.

Pare che dentro di me ci sia un mostro, un nemico tremendo che mi toglie la vita e la fa sua, la modella a suo modo, una sorta di “alien” microscopico che uccide. I medici lo chiamano beta-amiloide, ma non sanno cosa sia. Questa malattia è un pullulare di creature del non-essere che ronzano per dirmi che non c’è speranza, che non vedrò più la luce, mai. Un alveare che pizzica, morde, toglie i movimenti.

I dottori non dicono niente. Sono toppo presi dalle loro pratiche auto-referenziali, e quando dicono che sì, la diagnosi è morbo di Alzheimer “moderato”, non è già più moderato. Le sperimentazioni di farmaci riguardano i pazienti iniziali. Non ero iniziale anch’io? Double bind: troppo presto, ma troppo tardi. I test cui veniamo sottoposti non corrispondono quindi a nessuna offerta terapeutica, ma quando me ne accorgo ho già trascorso uno o due anni inutili, rotolando giù just like a rolling stone.

Eppure, nonostante tutto, c’è sempre uno sprazzo di luce che tenta di arrivare. Guardo i fiori, e mi illuminano. Senza i fiori non risplenderebbe il paradiso.

Ci siamo dati il compito, Beppe e io, di scrivere ognuno dieci haiku al giorno: esercizi di consapevolezza. Le poesie sono fiori da guardare e da elencare. Ma anche una scrittura brevissima adesso mi richiede un tempo enorme. Una piccola poesia mi sembra lunga da scrivere come Guerra e Pace.

  °°°

Non solo i test, ma anche i questionari rivolti ai loro famigliari prendono in considerazione una porzione molto limitata della persona, mettendo in ombra tutto il resto. Avrei voluto parlare con i giovani medici addetti ai questionari dello sguardo poetico di Stefania sul mondo, che la malattia ha solo reso più nitido e disinibito; le sue idee, l’empatia, le risate e il senso dell’umorismo. Avrei volentieri suggerito altre domande da fare su Stefania, ma già così mi sentivo guardato come uno stravagante. Le nostre parole non sono contemplate dal rigido conformismo dei questionari, strategia di distrazione dalla possibilità di un linguaggio condiviso con i pazienti.

In un bel libro, Diagnosi e destino, lo psichiatra Vittorio Lingiardi ricorda ai medici che la diagnosi è già sempre una cura. Lungi dall’esaurirsi nel dare un nome allo stato morboso, una diagnosi è un processo di conoscenza, un dialogo con la soggettività e il lessico del paziente. Vorrei parlare della dissolvenza, è questa la parola lucida e terribile che meglio descrive il mio stato, la mia dimensione. Quella che descrive il velo di cemento che cala tra me e tutto il resto, tra me e i miei pensieri. Dire che cosa sia veramente il dissolversi prima della senilità, dire il vuoto, dirlo dall’interno. Dire il non riconoscere più se stessi, lo sparire a se stessi ed essere testimoni della propria sparizione. Habeas corpus. Ma a chi dirlo?

°°°

To be like a rolling stone: è questo avere l’Alzheimer senza essere anziani? Essere una pietra che rotola e accorgersene quando forse è tardi. E allora parliamo del tempo, del tempo dell’Alzheimer. “Come ci si sente?”, how do you feel, cantava Bob Dylan, quando sei “come una completa sconosciuta?”

“Devo liberarmi del tempo e vivere il presente, giacché non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante”. Questa frase di Alda Merini, stampata sulle tovagliette di carta di una trattoria di campagna, ci sembrò banale all’inizio. Non l’abbiamo detto tutti tante volte? Esiste solo il presente, il qui e ora, ecc. Ma nel rileggerla oggi, domenica di fine autunno, abbiamo entrambi gli occhi bagnati di lacrime.

Liberarsi del tempo: dilatare smisuratamente questo istante in cui siamo, lei e io, in un punto qualsiasi della lunga o breve dissolvenza che porterà alla scomparsa di sé (della propria mente) anticipata da buchi di memoria, dall’inettitudine a vivere i processi, le sequenze, le frasi – sia quelle scritte, sia quelle fatte con i gesti semplici della vita quotidiana. Avere il coraggio di riconoscersi e di essere, per un istante, felici. Essere e basta. E qui, adesso, il freddo è secco e tonico, il cielo è azzurro, la campagna ancora verde, e noi abbiamo voglia di sorridere.

Avere l’Alzheimer non è molto diverso dalla situazione di tutta l’umanità, vivere sapendo di morire, vivere per morire. Ma con una messa a fuoco più nitida e un’accelerazione incalzante. La disintegrazione della materia esiste, è a portata di mano e di labbra, è percepibile guardando se stessi. Ma se dilatiamo l’adesso vivendone il lusso delle sincronie, delle infinite variazioni sul tema come nella musica jazz, siamo un po’ più liberi e vittoriosi nei confronti della forza disgregatrice della sindrome di Alzheimer. Non è questa, anche, l’utopia dei giornali – raccontare il mondo ogni nuovo giorno? Continuiamo ancora un po’ a leggere e a danzare, oggi, adesso, come se fosse l’infinito.