L’anticonformismo, per non dire il dissenso, non è proprio una specialità italiana. Al massimo è un anticonformismo teleguidato e prevedibile, ben remunerato e integrato. Per questo, di fronte al coro di tributi in memoria di Luciano Bianciardi, il grande scrittore grossetano morto prima di compiere quarantanove anni nel 1971, e di cui è uscito da Isbn ed Ex Cogita Editore un “Antimeridiano” (a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini) che raccoglie i principali romanzi e altro ancora, mi chiedo se molti di coloro che oggi lo lodano sui media farebbero lo stesso se lo avessero davanti a sé. All’epoca della moda dei festival di poesia, un amico poeta ironizzò su quelle signore della buona società che si esaltavano coi poeti “maledetti” (“ah, Rimbaud!”): se uno come Rimbaud si fosse loro presentato alla porta, disse, avrebbero di sicuro chiamato la polizia. Bianciardi, che finora è stato oggetto di una biografia di Pino Corrias (Vita agra di un anarchico) e di un saggio critico di Giancarlo Ferretti, non è solo un narratore beat, rarità per l’Italia (non a caso tradusse Henry Miller), ma anche tra i pochi spiriti autenticamente e dolorosamente liberi che abbia attraversato le nostre lettere. Risulta quindi difficile conciliare la quasi unanimità delle lodi col riconoscimento che Bianciardi sia stato un eretico che ha sfidato i principali tabù che fondano il consenso nella nostra società: la famiglia (che lasciò per una convivenza a Milano con Maria Jatosti), il sesso, il denaro, il lavoro culturale (temi della trilogia che culmina nel 1962 ne La vita agra, preceduta da Il lavoro culturale, 1957, e l’Integrazione, 1960), la politica, il successo e perfino il Corriere della Sera(rifiutò l’invito di Montanelli a pubblicarvi, dicendo che non faceva per lui; poi si mise a scrivere sul Guerin sportivo). Passò dalla parodia del terrorismo, la vendetta a suon di bombe da mettere al “Torracchione” di Milano, ovvero la sede della Montecatini, responsabile della strage di minatori maremmani con lo scoppio di un grisù (non quindi il Pirellone, come mostrava il film che Carlo Lizzani trasse da La vita agra), all’espressione della consapevolezza che l’unica rivoluzione possibile, l’unico cambiamento, può e deve avvenire “in interiore homini”. Cioè nelle coscienze. Insomma, si è appena finito di parlare di “profezia” nel trentennale della morte dell’eretico Pier Paolo Pasolini, colui che definì il consumismo barbarie; ma a rileggere Bianciardi (o a leggerlo di corsa, per chi non lo avesse ancora fatto) si è turbati dall’anticipazione cruda e consapevole dell’infelicità esistenziale e politica in cui ci dibattiamo oggi. La vita agra contiene e sviluppa letterariamente la consapevolezza che la vita non è senza senso perché miserevole (e quindi migliorabile secondo i progressismi incrociati di destra e di sinistra), ma, come direbbe un filosofo, è miserevole proprio perché senza senso, e questa sua insensatezza non è data fatalmente dal “mondo della tecnica”, ma dal profitto, capace di estirpare ogni senso anche in chi ne tira le redini. Ecco, Bianciardi ha parlato di ciò di cui ancora oggi è difficilissimo parlare: il lavoro, i soldi, il bisogno economico, l’alienazione, e soprattutto quell’evidenza delle cose e della vita la cui enunciazione è agli antipodi del linguaggio e dell’agenda dei politici.
Prendete questa frase: “La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. E la lotta politica, cioè la lotta per la conquista e la conservazione del potere, non è ormai più – apparenze a parte – fra stato e stato, tra fazione e fazione, ma interna allo stato, interna alla fazione” (da La vita agra). Prendete quest’altra, da un suo articolo del 1959, “L’alibi del progresso”: “E’ giusto organizzare convegni sull’impiego del tempo libero, con due milioni di italiani che non hanno lavoro, e più ancora che lavorano sei mesi all’anno?”. Ecco come Bianciardi descrive quarantacinque anni fa la “società del benessere”: “La gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare”, e che per di più “si sentono privilegiati”: “neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri”. A quell’epoca la pubblicità era ai suoi albori, e nessuno si faceva il lifting al volto. Eppure Bianciardi presagiva che le leggi estreme del consumismo e la società dello spettacolo si sarebbero estese e avrebbero modellato la società italiana: “Se continua il miracolo, fra vent’anni tutta l’Italia si ridurrà come Milano”. Quello che in America enunciavano poeticamente Miller, Kerouac o Ginsberg, contro la spirale annichilente del “produci-consuma-crepa”, Bianciardi lo diceva con realismo, descrivendo la condizione che è oggi la nostra; quella che un filosofo recentemente scomparso, Gilles Chatelet, ha chiamato: “Vivere e pensare come porci”. Il suo Moloch che fagocita ogni critica e annulla ogni avversario è l’esperienza precoce del “miracolo” economico italiano, dove nella futura capitale “da bere” nascono anche i pretesi luoghi di conflitto culturale e politico, come quella “grossa iniziativa” descritta ne L’integrazione, ovvero la fondazione della casa editrice Feltrinelli, cui Bianciardi partecipa con iniziale entusiasmo e da cui sarà licenziato per “scarso rendimento” – in realtà, scrive, perché “strascicava i piedi” quando camminava. Il “sistema” cattura e assimila (integra) anche chi si oppone, in un’accelerazione della velocità e dell’efficienza che segna la disumanizzazione di ogni ambito della vita sociale. L’amaro apprendistato avvenne nella Milano degli anni tra i ’50 e i ’60 del Novecento, all’epoca (l’epica) dei primi precari intellettuali, i collaboratori esterni, i lavoratori “cognitivi”, come si dice oggi, cioè occasionali, terziari, anzi, scrive Bianciardi, i “quartari”, che “non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione,. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura”.
Ma c’è un altro aspetto della prosa di Bianciardi da mettere in evidenza – e a parte i bellissimi romanzi sugli aspetti più “resistenziali” del Risorgimento italiano, con cui stroncò le aspettative di un mercato editoriale che desiderava altri romanzi anarchici e ribelli. Parlo della forma, che anch’essa sfida ogni censura. Come la sua insistita soggettività, il ricorso a un io incarnato ma lontano dall’autobiografismo, e che anzi, tanto più riflette le proprie personali, “provinciali” esperienze, tanto più si fa universale: un io per gli altri. L’anarchica, in senso assolutamente etimologico, libertà di passare da un piano all’altro, dalla riflessione al racconto e ritorno, come quando, da una meditazione sul camminare lento (strascicare i piedi contro l’efficienza dei milanesi, che lo condurrà addirittura ad essere arrestato), procede all’analisi politica del lavoro. Infine il suo lavoro (invisibile perché perfetto) sulla lingua, che lo fa aderire ogni volta a ciò di cui parla, in un ventaglio di stili da Manganelli a Miller. L’effetto satirico della sua prosa (anch’esso, quanto anticipatore dell’oggi!), si incontra con l’assoluta serietà delle sue intenzioni, forse troppo per il nostro Paese. Insomma, un “provocatore”. Chi altri prima di lui avrebbe scritto una biografia dei minatori maremmani morti per sottrarli all’anonimato, in un percorso letterario a ritroso, da personaggi a persone? Siamo sicuri che egli sia così integrabile nella borsa valori dei nostri media, dei canoni estetici e politici dell’Italia di oggi?
Colloquio con Luciana Bianciardi
Parlare con Luciana Bianciardi mi emoziona. E’ lei che ha scritto la bella cronologia che accompagna l’Antimeridiano del padre. Parliamo dell’edizione della Bur de La vita agra, col disegno in copertina della mano che regge una bomba, che lessi con entusiasmo di tardo adolescente negli anni ’70.
“Non è stato facile scrivere quella cronologia della vita di mio padre: l’ho tenuta il più possibile lontana da me. E’ molto asciutta, in modo per me quasi doloroso. Come se parlassi di quella del mio vicino di casa, di cui non partecipo emotivamente. Prima o poi scriverò una vera biografia, meno “mitica” di quella, bellissima, che ha scritto Pino Corrias.
“Fin da quando ero una ragazzina mi sentivo perseguitata dalla solita domanda sulla “bomba”: tuo padre voleva metterla davvero? Ma la bomba di cui parla La vita agra doveva essere in realtà il libro stesso: dire, nel 1962, che il miracolo italiano era una bufala, che era “balordo”, che il progresso era solo un alibi, compresa la tecnologia che stava iniziando proprio allora – la tv, l’automobile ecc. -, dire insomma che la gente doveva smetterla di farsi ingannare… Quelle pagine, forse tutto il romanzo, con pochi aggiustamenti si potrebbe datare 2002, e funzionerebbe ancora. La bomba era in realtà il libro, che in realtà non scoppiò mai davvero come avrebbe desiderato mio padre. E questa, credo, fu la ragione della sua morte. Accadde invece furbescamente la cosa opposta. Diventato famoso, tutti fecero a gara a invitarlo nei salotti e in televisione. E all’inizio lui ci stette, suo malgrado, perché era un ingenuo, si lasciava facilmente trascinare dall’entusiasmo, aveva voglia di dare e di ricevere, ma in questo modo diventò un giullare. “Ah, lei è veramente un anarchico?”, “Lei voleva davvero mettere una bomba?”. Se ne accorse, certo, e si stufò anche di andare in giro per l’Italia a presentare il libro, in un tour di promozioni con Domenico Porzio di cui mi scrisse in una lettera che si sentiva quasi un agente di commercio…
“In un certo senso, non ha mai smesso di pensare a “Tacconi Otello”, il suo amico operaio di Grosseto, come in quella pagina finale del romanzo dove rievoca la storia della bomba che doveva vendicare i minatori. Pensa: “cosa dirò a Tacconi Otello?”, come potrò raccontargli che qui a Milano ci si dà da fare per sopravvivere, come tante formiche, e io che volevo fare tante cose per la causa, riuscivo a stento ad arrivare a sera?…
“Si accorse quindi di questo, essere sfruttato come un giullare, e ritornò al lavoro di traduttore. Questo è molto importante, perché a lui tradurre ricordava il lavoro manuale, quello dei minatori soprattutto, anche nel lessico che usava per descriverlo – “rivangare”, “ribaltare”, “sfangare”, ecc. Ammirava il lavoro manuale, ed è noto il suo affetto speciale per quello dei minatori. Ricordo quando stavamo allo stesso tavolo, io a fare i compiti e lui a tradurre, e mio padre disse: “Siamo compagni di barella eccezionali, non ci diamo la barella sugli stinchi”, che nella terminologia dei minatori significava lavorare bene assieme, affiatati. Il lavoro duro dei minatori era per lui il lavoro vero, si sentiva un privilegiato a “scaldare la sedia”, tranquillo, senza la pioggia o senza il sole sulla testa, anche se tradurre era comunque un lavoro duro. Ancora adesso, le pagine del romanzo dedicate al lavoro dei traduttori sono attualissime…
“Quando morì, mio padre era solo. Tutti gli amici si erano defilati. L’unico a rimanere fino alla fine fu Franco Nebbia. Ai tempi d’oro ne aveva tantissimi, musicisti come Cerri e Intra, scrittori come Porzio e Fusco, e poi Jannacci, Dario Fo, ecc.”
Beppe Sebaste
(uscito su l’Unità del 29 gennaio 2006)