“Su Vertigini di W. G. Sebald (2003)”

Si è parlato, anche in queste pagine, del prendere le parole sul serio, portare i propri discorsi fino in fondo, e quindi di un’etica della coerenza valida anche nella letteratura. Credo che lo scrittore W. G. Sebald, tedesco trapiantato in Inghilterra e morto cinquantasettenne nel 2001 (in realtà un apolide fla^neur), corrisponda in pieno a quella tensione etica e letteraria, e che proprio per questo desti inquietudine  (per lo stesso motivo, riscuote in Italia uno scarso successo commerciale). Se poi il “nuovo”, non a caso un tempo sinonimo di “mostro”, è ancora considerato un valore ai nostri giorni, i libri di Sebald sono quanto di più importante sia apparso dopo i tortuosi, ipnotici monologhi di Thomas Bernhard.
Ho scritto “libri”, e non romanzi o altri generi, perché la prosa di Sebald non solo mescola le forme discorsive in qualcosa, appunto, di inedito, dove è indistinto o abolito il confine tra ragionamento e finzione (o tra critica e romanzo); ma al fraseggio sempre oscillante tra infinito e incompiuto aggiunge un’iconografia parallela, inserti visivi che interagiscono con le parole – foto sgranate, mappe, disegni, biglietti di treni o musei. Così anche nei quattro “racconti” sul tema del viaggio raccolti in Vertigini (del 1990), tradotto da Ada Vigliani per Adelphi. Partiamo dal secondo, il più lungo: “All’estero”.
Nel 1980, durante un viaggio che assomiglia a una fuga a vuoto, un girovagare petrarchesco che dall’Inghilterra lo porta a Vienna, e da lì a Venezia e a Verona, il narratore si dedica a delle ricerche sul Pisanello, “la ragione per cui avevo deciso di raggiungere Verona”. E quindi a stazionare nella chiesa di Sant’Anastasia, dove si può ammirare l’affresco su San Giorgio e il drago terminato nel 1435. Vedremo tra poco perché questo pittore è così importante. In realtà nulla della narrazione di Sebald fa presagire questo esito, tra il vagabondare solitario e opprimente a Vienna (l’ultima passeggiata è nei sobborghi, in compagnia di un amico lungodegente di un asilo psichiatrico) e i fantasmi più o meno letterari che vanno e vengono nel suo silenzioso ozio veneziano. Punto culminante del soggiorno a Venezia sarà, tramite la lettura del Diario del viaggio in Italia (1819) di Grillparzer (che paragona il Palazzo Ducale prima a un “coccodrillo”, poi a un’informe “enigma di pietra”), e con una serie di coincidenze letterarie e associazioni di idee, l’accorgersi di essere in contemplazione della prigione dei Piombi lo stesso giorno della fuga di Casanova: il 31 ottobre.
Così, il giorno dei Morti, decide di ripartire, e al buffet della stazione di Santa Lucia i clienti che affollano il bancone gli sembrano “una vasta cerchia di teste mozze” addossate sul marmo. A Verona si rifugia al Giardino Giusti, dove si sdraia su “una panchina di pietra all’ombra di un cedro”. Seguono frasi colme di quella tenera suspence che ricorda il primo Peter Handke (quello di Breve lettera del lungo addio, per intenderci), dove la poetica dell’idillio (“il mondo interno dell’esterno dell’interno”), chissà perché fa sempre presagire il peggio: “Udivo l’aria affluire e defluire attraverso i rami, e il lieve rumore che il giardiniere faceva rastrellando i viottoli di ghiaia fra le siepi di bosso, il cui delicato profumo riempiva persino quell’aria già autunnale…” Invece no, “da un pezzo non mi sentivo più così bene”. Il fatto è che l’ansia, nella prosa di Sebald, non viene mai da quello che racconta, ma da come lo racconta, in un basso continuo e quasi senza puntuazioni. Ed ecco quindi perché è importante la pittura di Pisanello: “Davanti alla pittura del Pisanello – scrive Sebald – già anni prima mi ero detto pronto a rinunciare a tutto, fuorché alla vista. Ciò che mi affascinava in lui non è solo la sua arte realistica, eccezionalmente sviluppata per quell’epoca, ma anche il modo in cui gli riesce di far germogliare quest’arte su una superficie di fatto inconciliabile con il realismo pittorico e nella quale viene accordato a ogni cosa – ai protagonisti e alle comparse, agli uccelli in cielo, all’inquieto bosco verdeggiante e a ciascuna singola foglia – il medesimo diritto all’esistenza, da nulla sminuito”.
Rileggete questa frase. In essa il “particolareggiamento” del Pisanello richiama per effetto di riverbero – mise en abi^me o autoreferenzialità – la scrittura di Sebald. La saturazione narrativa e l’attenzione panica (che conosciamo nei suoi bellissimi romanzi: Migranti, Austerlitz, Gli anelli di Saturno) si fa qui poetica esplicita, progetto: “tutto è presente e immanenza” – come scrive Sebald sul Pisanello. La concatenazione quasi ossessiva dei dettagli e dei pensieri, con parentesi che si aprono e chiudono inanellandosi tra loro in una sintassi infinita, è la fonte primaria di quelle vertigini che evocano il titolo e il contenuto del libro: quattro testi apparentemente referenziali, uno dedicato a Stendhal, due autobiografici, un altro a Kafka.
Se le vertigini si moltiplicano nel viaggio di Sebald in Italia (che sarà ripetuto nel 1987), la vertigine italiana di Stendhal viene descritta al momento della visita alla radura dove si svolse la mitica battaglia di Marengo. Al posto del diciassettenne Henri Beyle, che seguì entusiasta e quasi festoso l’esercito napoleonico su per il Gran San Bernardo, fino alla vittoria di Marengo, a distanza di pochi anni un disilluso Stendhal prova lo smarrimento di contemplare, nello stesso luogo, una distesa di ossa sbiancate di cadaveri a perdita d’occhio. Qualche anno dopo, l’autore di De l’Amour proverà un’altra vertigine della condizione umana nella forma di una disperata rassegnazione all’impossibilità di trovare “una donna in sintonia con il suo mondo interiore”. E se il viaggio in Italia di Sebald si conclude sul lago di Garda, è per un’impossibile rincorsa dell’analogo viaggio che un afflitto Franz Kafka vi fece nel 1913 (cui è dedicato uno dei racconti di Vertigini), quando lo scrittore praghese provava un’unica gioia: “quella che nessuno al momento immaginasse dove egli si trovava”.
Ci si potrebbe chiedere se è giusto chiamare i testi di Sebald “racconti”. Noi siamo sicuri di sì. Non solo perché (è banale dirlo) nessuna filosofia (e nessun esperimento scientifico) è possibile senza il ricorso a tecniche di enunciazione narrativa. I racconti di Sebald, i suoi “protocolli di esperienze” (come Deleuze chiamava quelli di Kafka) non sono soltanto un tributo al metodo zig-zagante di Walter Benjamin (del quale molti lettori hanno accostato alla prosa di Sebald i Passagen Werke). I racconti di Sebald pongono in maniera che di rado è così convincente la questione dello statuto della letteratura oggi, della sua identità an-archica, nell’epoca in cui la rivincita dei “generi” è la punta di un iceberg linguistico mondializzato in cui dominano la pubblicità e il collage delle merci culturali. Di che cosa sono fatti i libri? Che cosa è importante raccontare? Che cosa è vero? Quali esperienze sono più importanti di altre?
Fu Michel Foucault a parlare (a proposito di Flaubert) di un genere nuovo, non la passione dell’archivista, ma il “fantastico da biblioteca” (che potrebbe raccogliere una vasta produzione, da Borges a Philip Dick). Letteratura che si ispira alla letteratura come a uno stato del mondo, libri che parlano di altri libri, in un continuo cortocircuito tra i libri e la vita. E’ questo nomadismo, crediamo, che  giustifica la domanda che un paio d’anni fa, in un suo articolo dedicato proprio a W. G. Sebald, poneva Susan Sontag: se interessi ancora a qualcuno, oggi, la “grandezza della letteratura”. E’ una buona domanda, e anche piuttosto maliziosa.

Beppe Sebaste

(uscito su l’Unità, 8 ottobre 2003)