Sul ’77

Per esprimere qualcosa di vero sul movimento del ’77, e non un vagheggiamento nostalgico, premetto che non fu l’inizio di qualcosa, ma la sua fine.
Gli anni ’70 furono per molti versi splendidi e carichi di promesse: non tutte luminose, ma anche le ombre erano attraenti. Penso alla musica, alla creatività diffusa, alla consapevolezza politica che non si fermava davanti alle barriere di un ipocrita “privato”. Penso alla generosità delle generazioni maggiori nel dialogare con le generazioni minori. Penso al movimento delle donne che ha educato, nella mia generazione, molti maschi, e alla benefica influenza che ha avuto, anche se in larga parte rimossa, sul linguaggio. Il ’77 e quello che è seguito ha lentamente ma inesorabilmente strozzato tutto questo proprio portandolo crudamente alla luce, come il collo di un imbuto troppo stretto che impedisce una corrente impetuosa. Se oggi è facile dire che la rivoluzione culturale cinese di Mao fu un genocidio culturale, nel ’77 in Italia si verificò, dei tanti fili multicolori di una controcultura dilagante e festosa, una sorta di suicidio. Coperte dal fragore delle sue manifestazioni più folkloriche, dagli indiani metropolitani alle P38 – eroina e lotta armata, tenute insieme da una grande offensiva economica e culturale dei settori più spietati di quello che una volta si chiamava il Potere (da Andreotti a Craxi alle Tv di Berlusconi) hanno spento i desideri politici di più di una generazione. (Dire queste cose dopo il G8 di Genova significa sperare che la storia non si ripeta, che il variopinto movimento per “un nuovo mondo possibile” lasci aperte appunto le sue possibilità).
Non è quindi che il ’77 sia stato un evento così memorabile, nonostante alcuni caratteri francamente eccezionali: carri armati a Bologna, assassinio (gli spararono alla schiena) di uno studente, in concomitanza con il corteo di marzo a Roma in cui vissi l’incubo di una fuga randagia e convulsa in strade già buie con cabine e automobili in fiamme, e spari, poliziotti bardati come astronauti; dove assistetti impotente al fermo di amici mentre mi salvavo miracolosamente di vicolo in vicolo nella mansarda di un amico poeta (che se dio vuole è poeta anche oggi, e non manager di Mediaset o Publitalia). Si capiva poco quello che accadesse, e l’euforia e l’indignazione si trasformavano in rabbia, incredulità e delirio (“alzare il livello dello scontro”, “attaccare per primi”), e accanto all’ironia e alla festa crescevano i lutti e le violenze. Ricordo il Festival del Proletariato Giovanile a Parco Lambro (nel ’76) dove diciassettenne vendevo librini di poesie su una tovaglietta per terra, e assistetti stralunato all’assalto (“esproprio”) del camion dei polli di un ambulante, e all’inseguimento violento, da parte di quella che sarebbe stata l’Autonomia, di alcuni presunti tossicomani. Ma la tenda dell’amico poeta [Carlo Bordini], che conobbi lì a Parco Lambro, era sistematicamente a sua insaputa cosparsa di siringhe, e io e lui, più vecchio di me di molti anni ma coetaneo nella sensibilità, ci aggiravamo in quello che diventò presto un inferno come un dante e un virgilio da fumetto in una divina commedia ubriaca, o meglio acida.
Ricordo le assemblee bolognesi all’università, l’aura di intelligenza marxista e punk (“no future”) che ammantava come uno spray le iniziative di un’area di inclassificabili. Ricordo Pino Angoscia che ti fermava per strada e tu volevi mangiare un panino o pensare a una ragazza che ti piaceva e magari stava piovendo ed eri scazzato ma lui ti inchiodava e parlando monotono tutto di seguito ti diceva che quello che ci accadeva intorno era la ristrutturazione globale in atto del capitalismo che determinava ogni meandro delle nostre vite e ogni singolo segmento della nostra infelicità e dei desideri insoddisfatti, compreso l’arresto del tale in flagranza di reato e così via senza una pausa. Già, il desiderio, le “macchine desideranti”, il lessico di Guattari (più che di Deleuze), “come farsi un corpo senza organi”, quell’impasto di filosofia antifilosofica, psicanalisi antipsicologica e economia antieconomica, individualismo collettivo, vogliamo tutto e subito, il rifiuto del lavoro (ma il lavoro ci aveva già rifutati), la rivendicazione del lusso, e sarà una risata anzi un risotto che vi seppellirà.
Fu a Parma, non a Bologna, che presi una denuncia per avere scritto sui muri di un cinema “Non vogliamo scrivere sui muri”, e dove riuscii, non so più con quale retorica shakesperiana, di fronte a un folto capannello di studenti e compagni, a farmi condonare. Ormai lo sa anche chi non c’era: nel ’77 e negli anni successivi, accanto al tragico, proliferavano con innocente cinismo il comico e l’ironia, dai falsi del “Male” al TotoMoro Prigioniero (sulle stesse pagine), o “se Moro sia scappato in vespa con la bella bionda”. Fu il vero anticipo di quella cultura detta post-moderna che mischiava sullo stesso nastro scorrevole (come alla catena di montaggio di una fabbrica) le epoche e i luoghi, la geografia e la storia, le filosofie e le arti, in un misto da vetrina e da consumo. Il movimento del ’77 era un melting-pot di idee e di pratiche (“pratiche teoriche”, althusserianamente) di opposizione. Opposizione a cosa? A qualsiasi idea istituzionale o dominante. Forse non fa piacere ricordare che quella cultura di opposizione aveva soprattutto bisogno di un nemico, e se non c’era bisognava inventarlo. Se si riguardano i video del periodo non può non cogliersi infatti una fascinazione estetica per le divise e le uniformi del Potere: quelle dei nemici, nemici che conferiscono identità; ciò che trasformò quella rivolta, o almeno molti rivoli di essa, in una lotta fratricida. C’erano molte allucinazioni in quel periodo, allucinazioni desideranti; e anche questo, in fondo, era insito nel materialismo (comunista) nella sua formulazione più innovativa: “occorre attenersi ai fatti”, ha scritto il filosofo comunista Louis Althusser dal manicomio di Saint’Anne, ma “anche le allucinazioni sono fatti”.
Il ’77, penso, era già allora nostalgia di qualcosa d’altro, della cultura beat schiacciata, in Europa e soprattutto in Italia, da un moralismo che imponeva vettori strettamente “politici” e di classe alla rivolta del ’68. C’erano la cultura delle droghe, che non si era espressa con sufficiente trasparenza, intelligenza e liricità; quella dei diritti civili, della qualità della vita, dei libri di Ronald Laing; quella della poesia, la bellezza diffusa come espressione e come arma, contro la tentazione dell’omicidio e del suicidio; la cultura di tutto ciò che non era, non è mai stato, e ancora forse non è, politicamente accettabile, rappresentabile, delegabile, degno di essere presente sui palchi delle manifestazioni di partito, e neppure nell’agenda di governi e amministrazioni di sinistra. Che cosa davvero ha spento tutto questo? La duplice, simmetrica violenza dell’ideologia e dell’enterteinment, cioè della televisione.
Oggi che si è imposto in Italia un regime di pubblicitari (ma da quanto tempo, in realtà?), è dovere di ogni altro linguaggio e cultura esserne diversi di natura, non solo di grado, e contrapporre all’efficacia di slogan mediatici un linguaggio intenso e sobrio, liberato. Ma ricordo che l’orrenda locuzione “Azienda Italia” non la coniò Berlusconi, ma “laRepubblica” in anni craxiani. E che, con buona pace dei Ministri di Sinistra che scoprirono la lettura dei giornali in classe e aprirono la scuola alle aziende, leggere Dante (o John Donne) è la resistenza culturale più forte al berlusconismo nei suoi effetti più nefasti: la trasformazione della lingua in grido da stadio (Forza Italia) o in consiglio per gli acquisti (idem).
La gente vota una destra estrema e volgare perché ha paura: non solo di una sinistra immaginaria, ma paura della noia, e paura della paura. La gente è infelice e incapace di star da sola in una stanza, diceva Pascal, e vuole vivere per interposta persona, come negli spot televisivi. E il ’77 ci ricorda che la gente, soprattutto i giovani, hanno bisogno di sognare e vivere i propri sogni. Ecco una verità da cui trarre, invece che disprezzo, indicazioni di politiche concrete: sui modi e contenuti dell’educazione, dove è in gioco uno stile di vita prima di ogni scelta politica; sulla salute e felicità mentale dei cittadini (le tematiche psicosociali di Franco Basaglia, anche in ordine alla chiusura dei manicomi); sulla qualità dell’ambiente, non solo nei parchi naturali ma nei luoghi del lavoro e del cosiddetto “tempo libero” (libero di fare cosa?). Il ’77 introdusse forse per la prima volta l’idea di una “politica della bellezza” – intensa e  afroditica, non statica e winckelmaniana – che non spenga tensioni e passioni, che non abbia paura dell’informe e non cerchi forzate armonie. Capace di rendere abitabili le nostre città e le nostre vite.
Forse la migliore eredità del ’77 è nell’osare mischiare i linguaggi, il sacro e il profano, il serio e il ludico, la politica e la vita, il racconto e la riflessione, il linguaggio dei corpi e quello delle istituzioni. Da parte mia, continuo a meditare l’invito rivoltomi da un maestro: “La  vostra vita è troppo preziosa perché sia felice, perché sia spendibile facilmente”.

Beppe Sebaste