Note sul noir italiano
(Crimini, a cura di Giancarlo De Cataldo) (2005)
Il collettivo Wu Ming sosteneva che la letteratura “gialla” e “noir” può essere progressista o conservatrice, antagonista o conformista, indipendentemente dalla posizione politica degli autori: “James Ellroy ed Edward Bunker, entrambi provenienti dal noir e dall’hard boiled, sono piuttosto di destra, ma il loro modo di raccontare la ristrutturazione di Los Angeles e i conflitti lungo le barriere di classe e di razza è tutt’altro che conformista e consolatorio. Al contrario, molti giallisti italiani sono genericamente di sinistra ma scrivono cose canoniche, che rispettano i confini del genere senza forzarne alcuna regola, pullulanti di poliziotti buoni e finali rassicuranti”. La considerazione dei Wu Ming, che si limita però ai contenuti delle storie, invita a riflettere sulla questione del successo di ciò che prima erano “gialli”, e adesso “noir”.
Eppure tutto risale ai i racconti di Edgar Allan Poe, che cavalcò entrambe le poetiche del suo tempo, quella positivistica e razionale dei marchingegni narrativi e quella neo-romantica dei poeti dandy, praticando l’horror e il gotico metropolitano, ma inventando anche il racconto poliziesco raziocinante. Ma se un tempo il detective classico era un poliziotto più o meno istituzionale e omogeneo a una concezione individuale della colpa e del crimine, fautore di un ritorno all’ordine (borghese), ottimista nei confronti della scoperta della verità (al singolare), alter ego dello scienziato positivista o di un semiologo strutturalista; diversamente il detective privato a partire da Hammett e Chandler e il romanzo hard boiled americano è la controfigura di un narratore scettico e disincantato, che sa che la colpa, il crimine, e soprattutto la verità, non si possono più coniugare al singolare. A questa pluralità epistemologica, e all’allargarsi della colpa da individuale a sociale, corrisponde probabilmente la serialità del giallo, che non a caso si acquistava in edicola. Da anni però si leggono romanzi popolari che col giallo hanno poco o nulla a che fare, tranne i delitti e il referente socio-criminale, e tranne lo spazio che occupano nel marketing librario. Vengono chiamati “noir”, alla francese, che è il colore della cronaca nera. In Italia proliferano così tanto da dominare la produzione letteraria. Un libro recente in qualche modo li consacra: l’antologia di racconti dal titolo Crimini, a cura di Giancarlo De Cataldo, scrittore e magistrato. Introducendo i racconti di Niccolò Ammaniti, Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Diego De Silva, Giorgio Faletti, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, e infine il proprio, De Cataldo scrive che gli autori di “noir italiano” hanno “imposto un modo decisamente originale di raccontare i miti, i riti, gli splendori (pochi) e le miserie (molte) della contemporaneità”. Il “noir”, evoluzione e dissoluzione del “giallo”, è allora un romanzo realista che riflette la dissoluzione dei valori civili e morali del vivere contemporaneo. Il ritratto che ne deriva, continua De Cataldo, è “a tratti agghiacciante”, tra corruzione patrimoniale e morale e ossessione del successo a qualunque costo, come garanzia di immortalità e fuga dalla depressione incombente. Gli stessi “crimini” appaiono talmente disseminati e pervasivi da essere parte integrante della “realtà” che il romanzo descrive. Il noir sarebbe allora un altro modo di dire “romanzo criminale” – che è il titolo, non a caso, del libro più noto dello stesso De Cataldo.
Lo scrittore Valerio Evangelisti (su L’Europeo, poi sul sito carmillaonline), ha osservato che il passaggio dal giallo al noir presuppone l’insensatezza, oggi, del crimine, da un terrorismo senza moventi né ideologie riconoscibili, all’efferatezza dei killer patologici e seriali. Alla “dissoluzione del movente criminale” corrisponde l’impossibilità di credere in un ordine e in una verità da ristabilire. Se il giallo aveva pur sempre, anche nei suoi esiti più disincantati, una soluzione, insieme narrativa e poliziesca (“risolto il caso, risolto il problema”), il noir invece, anche senza volerlo, ricorda l’opera aperta della letteratura d’avanguardia, dove il finale non consola, perché in qualche modo non finisce. Il crimine di cui tratta non è soggetto a norme né a motivazioni individuali, ma appartiene a una “patologia sociale”. L’eroe percettivo nato con Poe è un eroe smarrito e privo di innocenza, e il suo interpretare somiglia al sogno o alla deriva. La questione è letteraria e politica: se gli autori non danno “soluzioni”, è perché non spetta a loro darle (né ai loro detective). La dissoluzione delle strutture narrative del giallo nel mondo del “noir” riflette la dissoluzione del legame sociale, di quel patto di senso che viene prima di ogni contratto sociale, e ne è anzi il presupposto.
Il noir americano (Ellroy, Lansdale e tanti altri), o francese (Manchette, Izzo, ecc.) racconta storie di disperazione sociale e di emarginazione, come in fondo già facevano decenni fa autori come David Goodies e Jim Thompson. E se è vero, come scrive Evangelisti, che James Ellroy nei suoi romanzi “finisce col riscrivere una storia degli Stati Uniti in cui società civile e mondo criminale si sovrappongono” (e qualcosa di simile ha svolto Evangelisti nel suo bellissimo Noi saremo tutto), cosa ci racconta il noir italiano? Nell’antologia Crimini il tema dell’emarginazione non manca, e coincide con la nuova realtà degli immigrati, sia che vengano percepiti “come minaccia che come imperdibile occasione di palingenesi per un Paese vecchio, stanco e inacidito”. Gli immigrati popolano il racconto (e tutti i romanzi) di Massimo Carlotto, che descrive con impietoso realismo l’impasto di criminalità multietnica al servizio del profitto del dorato nord-est italiano. Sono immigrati, o comunque stranieri, in senso lato e quasi metafisico, i protagonisti del racconto di De Cataldo, forse l’unico dell’antologia capace di raccontare la nuova soggettività dei marginali nel nostro paese, coloro che si arrangiano a inventarsi una vita a dispetto di quanto i sociologi vogliono spiegarci. (La capacità di rappresentare le nuove vite, cioè l’invenzione di sé dei nuovi marginali, è peraltro il merito di romanzieri come Lansdale e Palahniuk e, in Francia, di Fred Vargas). Il realismo di De Silva indugia dietro le quinte dei crimini, nella normalità sorda e patetica delle vite di cui non si parla quando si parla di “cronaca nera”. Tutti gli altri racconti, con modalità e qualità diverse, non nascondono di essere stati scritti al tempo della televisione e dei suoi ritmi narrativi. Faletti, Dazieri (e in parte, anche se linguisticamente più consapevole, anarchico e corrosivo, Ammanniti), raccontano storie indissociabili dalla dimensione televisiva e pubblicitaria, intesa come neo-lingua e sfera di esperienze artificiali (ciò che diventa francamente irritante nella non-lingua di Faletti). Lucarelli, Fois e Camilleri omaggiano, nelle loro storie credibili e gradevoli, il modulo del racconto giallo tradizionale, con qualche riuscito ammiccamento a Simenon (soprattutto, sia detto con ammirazione, Fois). Ma non voglio giudicare la qualità di questi noir, quanto riflettere sulla testimonianza del mondo cui rimanda il genere a cui appartengono, e quindi sul loro successo. Una prima impressione è la seguente: se nei casi migliori questi specchi della vita contemporanea fanno trapelare pezzi di sopravvivenza nell’insensatezza criminale del mondo (ovvero che, forse, un altro mondo è possibile), fosse solo nel modo di guardarlo, e magari grazie agli “stranieri”; in altri, invece, l’adesione ai codici (o, come si diceva una volta, ai “valori” e dis-valori) dell’esistente, è così mimetica e integrata da confondervisi, come un vasto affresco pubblicitario. Pubblicità di se stessa, nel vuoto della propria irrilevanza.
Beppe Sebaste
(uscito su l’Unità, 26 luglio 2005)