“Quando pensiamo a cosa sia veramente il silenzio, dobbiamo esaminarlo da due punti di vista; il primo consiste nel vedere il silenzio con gli occhi umani, il secondo nel vederlo con gli occhi di Buddha, con l’occhio universale. L’opportunità di sperimentare il vero silenzio si presenta quando siamo stati spinti in un angolo e non possiamo muoverci nemmeno di un centimetro. Può sembrare una situazione assolutamente disperata, ma questo silenzio è del tutto diverso dalla disperazione, perché nella disperazione la fiamma cosciente del desiderio umano brucia ancora. Il vero silenzio, invece, è quello stato dell’esistenza umana che va al di là della disperazione”. E questo silenzio, continua il maestro zen Dainin Katagiri, “senza la vita quotidiana è impossibile”.
Il brano citato sopra parla dell’esperienza della resa, che nella nostra tradizione si dice anche “grazia”. Significa, tra l’altro, tacitare le passioni, la sofferenza che viene dall’ignoranza. Silenziato l’interno, diventa accessibile cogliere il silenzio che viene da fuori, la musica del silenzio, e gustarla con sobria beatitudine. Ma, se c’è una musica del silenzio, c’è anche un silenzio del rumore. E’ questo che insegna lo Zen, e che sa ogni praticante: saper vedere, sentire il silenzio anche nel rumore, oltre il dualismo di silenzio e non silenzio. I buddhisti parlano piuttosto di “non-suono” (così come, con grande saggezza, al concetto di amore preferiscono quello di “non-odio”). Vero silenzio, è oltre il suono e il non-suono.
Noi, invece, abbiamo paura del silenzio, come abbiamo paura del vuoto. Basti vedere come saturano lo spazio arredatori e architetti, urbanisti e assessori. Per non parlare della televisione e della radio. Una volta, ad una trasmissione radiofonica in cui mi si chiedeva di parlare del mio viaggio nel deserto, provai a restare in silenzio, incoraggiando anche gli altri ospiti a mantenerlo, per averne appunto l’esperienza (del deserto). Ci mancò poco che suonasse una sirena: avevo evocato l’unico atto veramente proibito nei nostri mass-media. Perché il silenzio fa paura? Secondo me è molto semplice: perché ci si accorge di se stessi, si sente il proprio respiro, il proprio pensiero, il proprio esserci.In un’epoca in cui si confonde il semplice pensare con la tristezza, il silenzio è addirittura vissuto con angoscia. Come se ci separasse dolorosamente dal mondo; come se partecipare al rumore degli altri fosse l’unica prova del nostro essere vivi
Gli eremiti del deserto sono antesignani del culto e gusto del silenzio. Il deserto insegna il silenzio, di sé e del mondo. E’ detto mistico, cioè iniziatico. Ma chiunque può farne l’esperienza. “Il silenzio è l’oceano nel quale tutte i fiumi delle religioni vengono a gettarsi”. E’ infatti possibile, come ha intuito il non dimenticato Bruno Hussar – cioè Père Bruno, fondatore della comunità Salaam/Shalom, tra Gerusalemme e la Giordania – che il silenzio accomuni tutte le religioni del mondo, compreso l’ateismo. Per questo nel 1983 egli edificò, luogo ecumenico di meditazione e preghiera, una “casa del silenzio” a forma di mezza sfera. Perché il silenzio, mi disse, è alla portata di tutti. Fu Bruno Hussar a spiegarmi che in ebraico ci sono due parole per dire il silenzio: sheket, o assenza di rumore, e dumìa, cioè il silenzio profondo, come appare nella Bibbia (in Elia, Libro dei Re, 19, 12) a designare “una brezza leggera, la voce di un sottile silenzio”, e nel Salmo 65 come “lode a Dio”. Chi sia stato abbastanza a lungo in un vero deserto, come allora a me era capitato, sa bene cosa dumìa vuole dire, anche se preferirei ribaltare la similitudine: non è il silenzio a essere metafora di Dio, ma l’idea di Dio a essere metafora di silenzio. Così come è metafora di sabbia, di polvere, e appunto di deserto: quell’impermanenza paradossalmente eterna che è punto d’incontro – proprio come il silenzio – di ogni religione. I famosi giardini zen, fatti di sabbia e pietre, sono metonimia del deserto, erèmia, quello dei padri della Chiesa per i quali il silenzio era tutt’uno con la parola.
Se Isacco di Ninive esortava la preghiera senza preghiera, perché la vera spiritualità è al di là della parola, un monaco del monte Athos osservava che “alcuni hanno udito le parole di Gesù, ben pochi hanno ascoltato il suo silenzio”. Giovanni Climaco, l’autore della Scala Santa, ispirata da una lunga vita trascorsa nel deserto del Sinai, lasciò scritto che “il silenzio (…) è madre della preghiera, liberazione dalla cattività, preservazione dal fuoco, avversario del desiderio di insegnare, artigiano della contemplazione, progresso invisibile e ascensione segreta”. “Soltanto nel deserto, nella polvere delle nostre parole, la parola divina poteva essere rivelata” – ha scritto ai nostri giorni il poeta ebreo Edmond Jabès -. “Nudità, trasparenza di una parola che dobbiamo ogni volta ritrovare per sperare di parlare.”
Nel silenzio nasce la poesia, che ad esso anela di tornare come al proprio alveo, la propria matrice. Se è magari difficile, per noi lettori di giornali, farsi carico del sublime dei “sovrumani silenzi” e della “profondissima quiete” evocata da quella lode alla meditazione e al “qui e ora” che è l’Infinito di Leopardi, propongo l’esperienza quotidiana della cucina con la neve fuori del poeta praghese Vladimìr Holan, dove “bevi del vino” e “guardi dalla finestra l’intima eternità”; e dove, grazie al silenzio, puoi oltrepassare quella disperazione di cui parlava il maestro Katagiri: “Perché dovresti affliggerti se nascita e morte siano solo dei punti, / sapendo che l’esistenza non è una retta. / Perché dovresti tormentarti guardando il calendario / e preoccuparti quanto vi sia in giuoco. / E perché confessare a te stesso che non hai denaro / per le scarpette di Saskia. /E perché poi vantarti / di soffrir più degli altri. / Anche se sulla terra non vi fosse il silenzio, / questo nevicare lo ha già sognato. Sei solo. / Quanto meno gesti. Nulla da mettere in mostra” (V. Holan).
Se la nostra cultura ha prodotto una retorica anche del silenzio (“eloquente”, come recita l’ossìmoro divenuto cliché), il saggio, dicono i cinesi, “non ha idee”. Silenzio è tacitare il narcisismo delle nostre opinioni, e la presunzione di sapere e di dire. Ho sempre ammirato, per esempio, del nostro scrittore Italo Calvino, la sua ricerca del silenzio e il suo ostinato tentativo, contraddittorio finché si vuole, di praticarlo, oltre che di narrarlo. Come in questo brano di Palomar:
“In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire. Ecc., la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio”.
Al limite, il vero silenzio sorge dove si cessa di avere opinioni. Anche sul silenzio.
Beppe Sebaste
(uscito su l’Unità, giugno 2001)