Meglio confessarlo subito: io sono uno di quelli che si siedono sulle panchine pubbliche. Non solo nei belvedere o sui poggi panoramici, di fronte a un lago o sul lungomare, ma nei parchi, nei giardinetti, nelle piazze e nei viali, ovunque. Potreste anche avermi visto, magari di sottecchi. O più probabilmente avete evitato di guardarmi. Perché da qualche tempo chi si siede su una panchina, nelle nostre città, più che anonimo diventa invisibile. Lo scrittore Luciano Bianciardi raccontò che, nella Milano dei primi anni ’60, quella del boom economico, fu arrestato per strada perché camminava troppo lentamente, strascicando i piedi. Oggi stare in panchina è un’anomalia sociale più grave, se chi si siede si sottrae non solo alle regole non scritte dell’efficienza, ma allo sguardo degli altri. Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina, se si è maschi o femmine adulti, chi sta in panchina è poco raccomandabile. Nel migliore dei casi si è disoccupati, sfaccendati, vite di riserva. Eppure è l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città. La panchina è il margine del mondo, vacanza di chi non va in vacanza, ma anche il posto ideale per osservare quello che accade: ovunque sia, è il centro dell’universo. Da lì si contempla lo spettacolo del mondo, ci si dà il tempo di perdere il tempo, come leggere un romanzo. Si guarda senza essere visti. Ecco alcuni dei non piccoli piaceri del sedersi su una panchina. Le mie preferite sono quelle verdi a onda di una volta, di legno, in via di estinzione. Ma tutte le panchine sono oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità (la loro grazia), nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire.
Che sulle panchine soggiornino i poveri e gli extra-comunitari (qualunque senso abbia ormai questa parola: anche gli anziani sono esclusi dalla comunità dei consumatori), i barboni e i drogati, lo dicono le recenti sparizioni e divieti in alcune città del nordest, ultima delle quali Padova (sindaco Ds): panchine eliminate per scoraggiare la sosta degli indesiderabili. A inaugurare questa rappresaglia sociale fu a Treviso il sindaco leghista Gentilini, che fece ripulire una piazza da ogni tipo di sedile in funzione anti-immigrati. Seguì Trieste, dove si registrò una protesta significativa: “La città in piazza con i clochard”, titolava un articolo di Paolo Rumiz all’inizio di dicembre 2006. La rimozione delle panchine per impedire ai barboni di sedercisi a Natale fu effettuata da vigili urbani armati di sega, e il passaparola di cittadini indignati, anziani compresi, divenne resistenza civile. “Come può venire in mente di segare delle panchine?”, sbottò lo scrittore triestino Claudio Magris. L’attore veneto Marco Paolini esortò i triestini a mettersi sulla schiena un bel numero “13”, come i giocatori di calcio d’una volta quando dovevano restare fuori-campo come riserve, e aggiunse: “intorno a noi è pieno di gente pronta a toglierci di sotto il culo la tua panchina gratuita e a offrirci mille alternative a pagamento. E Rumiz: “Mi ci sedevo da bambino su quelle panchine di legno rosso, per veder arrivare i vapori. Mi ci sono seduto sempre, fino a ieri. Sedendomi lì, accanto alla fontana, celebravo la comunità e i valori in cui essa si riconosce. Ribadivo che lo spazio pubblico ha un valore irrinunciabile, specie oggi che tutto diventa privato, anche l’aria”. A Parigi, prima di diventare presidente, Sarkozy propose di abolire le panchine poste sotto i condomini, e in quasi tutte le nostre città i cittadini, per esistere socialmente, devono trasformarsi in clienti e consumatori – e tanto peggio se si mangia senza fame e si beve senza sete. E’ per avere detto che la desocializzazione a Parma è iniziata simbolicamente con l’occupazione dei gradini del monumento a Garibaldi, nell’omonima piazza, con vasi da fori per impedire alla gente di sedersi, che il sottoscritto ha ricevuto insulti e annunci di querela.
Le panchine stanno scomparendo, e da tempo compongo il catalogo delle panchine che ho amato. Quelle del Parco Ducale di Parma, dove guardando gli alberi e la gente scrissi le mie prime poesie dedicate a Cézanne, quelle di Milano in un ricco quartiere dietro via Solferino, dove imparai il valore dell’ozio, in opposizione al neg-ozio, guardando il pranzo di immigrati nordafricani a base di pane e sardine. Quel rito povero mi suggerì un sovrappiù di riposo, e il valore d’uso di un luogo imbalsamato dalle algide e lussuose residenze. Le panchine delle piccole piazze di Parigi, o sui boulevard, anche appena fuori dai ristoranti, e quelle sulla sommità della Scala del Tamburino a Roma, Gianicolo, oggi scomparse; quelle del cimitero dei poeti al Testaccio, dove sull’erba, di fianco alla tomba di John Keats, si contempla la Piramide e il traffico irreale di auto. Ma anche quella di via della Magliana, semiperiferia romana non priva di dolcezza, dove si siedono gli anziani in compagni degli immigrati. Di recente a Ginevra mio figlio adolescente, che lì va a scuola, mi ha mostrato un suo luogo segreto. Era nella via più trafficata del centro, quella dello shopping e dei negozi di lusso. Due panchine di legno marrone, vuote, in prossimità della fermata del tram. Ci siamo seduti lì ad aspettarlo, tra le decine di corpi frettolosi e le luci multicolori dei negozi, e quando il tram è arrivato siamo rimasti beatamente avvolti nella nostra quiete, indifferenti ai traffici degli altri. Le persone salirono e scomparvero, come le onde del mare risospinte dalla risacca, senza che noi ci alzassimo dalla nostra panchina. Era questo il luogo segreto di mio figlio, l’occhio del ciclone della sua nuova città, luogo di un vagabondaggio immobile e walseriano. Gli ho sorriso felice.
La letteratura abbonda di panchine, simbolo di una vita di frontiera, spesso senza appartenenza, rivendicata da scrittori e artisti: oziosi, cioè straordinariamente assorbiti dal loro lavoro invisibile. Come appunto i personaggi folli e guariti che popolano i racconti dello svizzero Robert Walser (l’autore di La passeggiata), dove la panchina denota un’esistenza volutamente ai margini della vita civile, nascosta e invisibile. Così, uno scrittore tra i più walseriani d’Italia, Giorgio Messori, trovatosi in un giardino sotto il cielo dell’Asia centrale, si ricorda a un certo punto del motto “laze biosas, vivi nascosto, appartato, senza metterti in mostra, come consigliavano i greci”, e rievoca, insieme alla propria camera d’infanzia, “una panchina in un piazzale ingombro di macchine, il giardinetto allo scalo ferroviario” (Il paese del pane e dei postini). La poesia dell’ozio contemplativo si accompagna nelle panchine a quella sentimentale, l’amore che sboccia e che si esprime su questo margine lievemente sopraelevato del mondo, come cantava Georges Brassens ne Les amoureux des banc publiques (“gli innamorati delle panchine”), i baci che raccolgono lo sguardo di disapprovazione dei passanti. Nasce su una panchina il Primo amore del romanzo d’esordio di Samuel Beckett, si chiude su una panchina l’amore che Dostoievskij racconta ne Le notti bianche. E’ su una panchina che si incontrano Bouvard e Pécuchet di Flaubert, ed è su una panchina che si svolge uno dei racconti più esilaranti di Thomas Bernhard (E’ una commedia? E’ una tragedia?). Se Henry James scrisse The Bench of Desolation (La panchina della desolazione, portato sullo schermo da Claude Chabrol), e in Italia la panchina di città entra nella letteratura col Marcovaldo (1956) di Italo Calvino, il capolavoro della poetica umana delle panchine lo scrisse Georges Simenon in Maigret e l’uomo della panchina, noto ai lettori come la storia dell’uomo con le scarpe gialle: “un uomo come se ne vedono tanti sulle panchine del quartiere”. Con l’empatia che è il suo unico metodo d’indagine, Maigret percorre l’epopea di un provinciale impressionato dall’agitazione della grande città, dalla folla in perpetuo movimento, ma anche commosso dalle vite umili e ordinarie che lottano ogni giorno per restare a galla.
Anche nel cinema le panchine resistono al disprezzo sociale in storie che costituiscono una resistenza culturale all’omologazione, sociale e psicologica: da La venticinquesima ora di Spike Lee, dove Edward Norton medita su una panchina il suo ultimo giorno di libertà prima del carcere, a quella di Forrest Gump, eroe e quasi santo in rotta coi valori dominanti, che racconta la sua storia seduto su una panchina mentre aspetta l’autobus. Innumerevoli le panchine che scandiscono le surreali avventure dei grandi Stan Laurel e Oliver Hardy, emarginati e vagabondi: per Stanlio e Ollio la panchina è il luogo di una deriva tragicomica, e i loro continui, esilaranti fallimenti, degni di Bouvard e Pécuchet, dicono la poesia di un nomadismo che resiste, anarchico e irriducibile, all’imperativo dell’ordine, dell’efficacia e del successo. C’è la gioiosa panchina nel parco in cui si incrociano i destini dei futuri sposi (e dei loro cani) ne La carica dei 101, e c’è la disperazione urbana descritta di recente in The bench (“La panchina”) dal regista danese Per Fly. Se qualcuno ha suggerito che anche il luogo della serie Tv Friends – un bar di Manhattan che si alterna a un appartamento – è quasi una metafora delle panchine pubbliche, è invece proprio una panchina il sito di celluloide divenuto icona del paesaggio newyorchese, tra sogno e realtà. Parlo ovviamente della panchina di Sutton Place che Woody Allen ha immortalato in Manhattan, dove lo si vede in smoking seduto di schiena ad aspettare l’alba con Diane Keaton sotto Queensborough Bridge, ammirando come il viandante del romantico Friederich non le Alpi ghiacciate, ma lo skyline di New York.
Anche l’arte contemporanea si fa portatrice dell’intensità di questo luogo così umano, e d’altronde è proprio l’arte a portare da sempre l’attenzione sulle soglie, sulla frontiera tra l’interno e l’esterno dell’abitare, che la panchina incarna così bene. Dalle magnifiche panchine luminose di Alberto Garutti, alla panchina monumentale che Massimo Bertolini ha installato sulla piazza della fiera di Basilea, sormontata dall’immensa A di anarchia, fino alla panchina coi sussurri e le frasi degli innamorati che Christian Boltanski ha posto in un parco del XIII° arrondissement a Parigi.
Cosa c’è di più umano e universale di sedersi? Non ci sono solo le panchine dei poveri, come pure molte associazioni, in Francia e in Svizzera, esortano a costruire sul modello americano dei pocket garden, giardini tascabili provvisti di panchine, anche tra i grattacieli, per attenuare l’isolamento di quanti, anziani o invalidi, non possono altrimenti allontanarsi da casa (si veda il sito francese “http://www.lesbancspubliques.fr“). Forse non tutti sanno ad esempio che la Juventus, la grande squadra di calcio, fu fondata su una panchina di legno di Corso Re Umberto a Torino oltre un secolo fa, e che nemmeno lo Zarathustra di Nietsche sarebbe esistito senza una panchina. Di fronte al lago di Sils-Maria, in Engadina, il filosofo stava “seduto ad attendere / attendere ma senza attendersi nulla / al di là del bene e del male”. E a riprova che le panchine sono fatte anche per ricchi, proprio a Sils-Maria gli epigoni di Zarathustra possono prenotarsi una panchina e fare incidere sul legno le parole più gradite, al prezzo di 2500 franchi svizzeri. Un’iniziativa nata dall’ufficio del turismo che sta devastando il paesaggio con una proliferazione, questa sì in controtendenza rispetto alle città, di panchine.
L’universalità del sedersi su una panchina può attingere anche all’infinito dell’omonimo sublime sonetto del nostro Giacomo Leopardi, cui si perviene grazie a una siepe, “sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete”. Chi oggi vada a Recanati davanti a quella siepe, divenuta muretto, di fronte alle punte innevate dei Monti Sibillini, troverà una panchina nel giardino di un convento. E’ una sorta di malinconico, nostalgico infinito anche la saudade evocata da Antonio Tabucchi nel suo “I volatili del Beato Angelico”: “Il comune di Lisbona ha da sempre messo delle panchine pubbliche in alcune zone della città: i moli del porto, i belvedere, i giardini da cui si domina il mare. Sono molti coloro che vanno a sedersi lì. Tacciono, con lo sguardo perso in lontananza. Cosa fanno? Praticano la “Saudade”. Cercate di imitarli. Certo, è un cammino arduo, le sensazioni non sono immediate, talvolta l’attesa dura persino degli anni. Ma, lo sappiamo, la morte è fatta anche di questo”.
Beppe Sebaste
(la Repubblica, 12 agosto 2007)