“Tanto non uscivo lo stesso” (il mio lockdown a Monteverdevecchio)

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Confesso di essere stato quasi infastidito dalla reazione di molte, troppe persone che si sono messe a scrivere un diario della pandemia, neanche fossimo nel ghetto di Varsavia assediato dai nazisti, quando tutti, ma proprio tutti, scrivevano messaggi nella bottiglia, molti dei quali vennero trovati tra le macerie. Ma lì si voleva lasciare testimonianza su un mondo – una memoria, una lingua, un popolo – che si credeva stesse per scomparire per sempre. Da noi era in gioco solo uno stile di vita di cui la pandemia, oggi forse si può dirlo, è stata ed è una grande occasione di consapevolezza. Per esempio, come leggevo oggi, che la cosiddetta “crescita” non c’entra nulla con il benessere, la felicità e la lotta contro la povertà.

Ho trascorso tutta il periodo di lockdown a Monteverdevecchio, dove il mio cane mi portava a passeggiare almeno due volte al giorno (farsi portare fuori anche senza dover fare la pipì è uno dei benefit dell’avere un cane). Peccato che i parchi fossero stati chiusi, pur non avendo mai intravisto un nesso tra il camminare da soli o col cane in una spiaggia o in un parco, e il pericolo del contagio. Come quando fui cacciato da una panchina solitaria – ma conosco bene il pregiudizio sociale che alcuni provano verso chi si concede il lusso di sedersi su una panchina. Nelle strade alberate del quartiere vedevo crescere sempre più alte certe erbe selvagge intorno alle automobili “spiaggiate”. (Chi ha letto il capolavoro di Guido Morselli Dissipatio H.G., sa riconoscere certi segnali).

Sulla mia strada mi affacciavo spesso dal balcone come da un palco in un grande teatro, e in effetti fu così per un periodo. Due volte al giorno, a mezzogiorno e verso l’ora del tramonto (che a Monteverdevecchio è quasi sempre sontuoso) il quartiere si animava di nuvole sonore spesso in competizione tra loro – jazz, rock, canzoni italiane nazional-popolari. Erano momenti festosi, comunitari ma a distanza. Nessuna parola veniva scambiata nel “teatro”, nemmeno tra loggionisti. Ai suoni si accompagnavano però le lucine accese delle case, delle terrazze, dei cortili condominiali in cui i bambini giocavano prima di cena e si annidava il fresco profumo della primavera.

Solo una volta il mio balcone diventò un palcoscenico sonoro, quando il 25 aprile offrii anch’io qualche brano musicale a volume alto, da Caparezza uscito dal tunnellll del divertimento, che quando va fuori si annoia (forse il pezzo più adatto al lockdown) alle diverse versioni di Bella Ciao, Manu Chao compreso. Fu quel giorno che un’insospettabile dirimpettaia mi chiese dal condominio di fronte se potevo “mettere su” anche Fischia il vento, e lo cantò a sua volta. Mi ero abituato all’idea che Monteverdevecchio fosse un quartiere borghese, magari colto e di sinistra, come lo sfondo dei film di Nanni Moretti, e quella condivisione canora mi divertì.

Provo già nostalgia per quel periodo che mi riportava ad altre stagioni, quando ognuno sentiva la radio accesa del vicino, e nello stesso tempo sei autorizzato a seguire i tuoi pensieri senza interferenze, farti mentalmente i c…i tuoi senza nessuno che ti tira per la giacca. E ho lavorato benissimo.

Ho imparato ad ascoltare i mormorii degli alberi mentre le loro foglie vibravano all’aria, e ho percepito la loro felicità quando gli umani sembravano assenti, o comunque irrilevanti.

Ma sono anche felice di ritrovare il sorriso di baristi e ristoratori, i migliori amici dell’uomo.

(uscito su Repubblica edizione di Roma
domenica 31 maggio 2020)