Un marziano nella festa della gente. Le feste dell’Unità all’epoca dell’Expo-Italia.

Reportage dalle “feste dell’Unità al tempo di Matteo Renzi”, uscito su Venerdì di Repubblica dell’ 11 settembre 2015. Tranne la prima, di Luigi Ghirri (1983), tutte le foto, scattate alle feste dell’Unità di Reggio Emilia e di Milano, sono di Daniele Delonti (che di Ghirri fu per anni assistente), a cui devo il pacere della compagnia e dell’intelligenza in buona parte di questo viaggio.
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Viva le gente / la trovi ovunque vai / viva la gente / simpatica più che mai…” – 

   Al Campovolo di Reggio Emilia si svolse nel 1983 una mitica festa nazionale dell’Unità. È qui che Luigi Ghirri scattò la famosa foto di Enrico Berlinguer visto di spalle durante il comizio, un piccolo grande uomo con un carisma immenso come il suo uditorio – il popolo della sinistra. Se il Pci di Berlinguer era il partito della gente onesta, oltre trent’anni dopo c’è la festa del Pd, il partito della gente e basta.

   È il 70° anniversario delle feste dell’Unità, ma qui si chiama “FestaReggio”, anche se nessuno ricorda da quando. Chiedo alle coppie sedute al mio tavolo nel ristorante delle tigelle perché siano qui, e mi rispondono che è per passare una serata tra amici, non solo tra loro ma in una condivisione più larga, perché questa è la festa della “reggianità”. Non faccio fatica a immaginare la stessa cosa in tanti altri comuni italiani, piccoli mondi in cui ci si dà di gomito tra presunti simili. In assenza di orizzonti politici più ampi ci si “apre” (ma non è in realtà un restringersi?) a un’appartenenza identitaria basata sul luogo. Le coppie sedute al mio tavolo mi parlano quindi dei bellissimi fuochi d’artificio di ieri, serata d’apertura.

Dimostrazione

Col Pd partito di tutti, cioè della nazione, la festa dell’Unità è la festa del chiunque, dove tutti sono uguali. Non mancano solo le bandiere rosse, ma i segni dell’“altro”. È come il “post-moderno” descritto da Lyotard: mangiare cinese o indiano alla festa dell’Unità di Firenze, spruzzarsi profumo francese a Shanghai, etc. Dirsi di sinistra e farsi votare dalla destra, rendere tutto intercambiabile come merci – idee, classi sociali, valori. Qualcuno mi aveva detto: “Alla festa di Reggio non vado più da quando ho visto sparire lo spirito che l’animava e cambiare il pubblico, tutto ruota intorno a vendite di Folletto e spettacoli per teenagers. L’ultima volta a sentire Walter Siti che presentava il suo libro Resistere non serve a niente, eravamo in dodici”. Dopo un titolo così, cosa potrei aggiungere? Ma forse la realtà è più generosa.

Quando sono arrivato di giorno era tutto bianco. L’unica bandiera visibile era quella (bianca) della Fiat, l’unica cosa rossa era la maglietta del gentile guardiano all’ingresso. Poco a poco gli stand si aprono e appaiono i colori, le impronte della gente. Alle 18,30 c’è la fila ai ristoranti, dal “Gambero Rosso” una ragazza corre trafelata a richiamare le cuoche che fanno pausa nel mio bar. La ruota panoramica, anch’essa bianca, si mette a girare: la Festa comincia. La “piazzetta delle idee” invita con l’altoparlante al primo dibattito. Incontro l’amica Rosanna Fantuzzi, vedova del grande Augusto Daolio dei Nomadi, che promuove in uno stand la “Associazione Augusto per la Vita”. Sembra decisamente di essere in una festa dell’Unità, non solo per il programma, ma per il modo di abitare la festa. Le persone, molte le coppie, si comportano come fossero in vacanza, ricreano la piazza ormai sparita nella città, un luogo in cui passeggiare, comprare cose, ma anche parlarsi e ascoltarsi. Come a Firenze dove ho cenato in strada, anche qui la festa evoca l’immagine di una città calviniana e invisibile, tra il suk arabo, la piazza italiana del passato e il luna park. La notte ascolto, il repertorio di anzoni di Vittorio Bonetti, già animatore delle feste di Cuore a Montecchio (sembra un secolo fa: lo è).

Dimostrazione

Seguendo un format collaudato in Emilia, oltre ai materassi e i Folletto c’è un’esposizione di automobili dei concessionari della zona, ma è proprio questa l’appartenenza. Un uomo e una donna camminano mano nella mano nella main street della festa dopo il tramonto, le luci accese e la ruota panoramica che brilla, poi si fermano davanti a una scintillante Fiat 500 X GPL a prezzo speciale. Quale spot è più efficace di quello, subliminale, che rovescia il cliché del politico da cui non compreremmo mai un’auto usata, in un altro da cui saremmo felici di acquistarne una nuova?

Dimostrazione

“Sembra una sagra paesana”, mi confida a Firenze una volontaria di Scandicci con lo sguardo più acuto di certi sociologi. “La gente è stanca di messaggi politici, visi come divi, la gente viene per vedere come si veste la Boschi, non per sentire quello che dice”. “Oppure si buttano sul mangiare, spendono gli ultimi soldi nel cibo per dimenticare i loro problemi. O a prendere il sole e farsi fare i massaggi alla beauty farm di Campo Bisenzio…”.

Il luogo è il Parco delle Cascine, sembra una città del nord Europa tanto è bello il Lungarno coperto di prati. Qui però prevale la fiera: scivolo toboga e altre giostre, venditori di birre, crèpes, Havana Club, pizza, churrasco, sfogliatelle e materassi, oltre ai tendoni più spaziosi della gastronomia, cucina toscana, ma anche indiana, araba e argentina. Poiché preferisco i volontari ai professionisti, mi siedo al ristorante del circolo Pd di Scandicci. Da qui passano tutti, mi incanto a guardare la gente. Siamo seduti sulle aiuole spartitraffico o nelle strade con le righe blu per parcheggiare. Invece di farci la multa, poliziotti camminano gentili e soddisfatti. La città è riciclata in un’utopia vagabonda come le mie Panchine che, associazione d’idee, presentai nel 2008 alla festa nazionale di Firenze.

C’era il reality-Italia berlusconiano, dopo anni di azienda-Italia craxiana, ma era già avvenuto l’affievolimento delle Feste dell’Unità in Feste Democratiche. Ora è l’epoca dell’Expo-Italia renziana, il Pd è da due anni al governo e l’anno scorso l’Unità fu fatta morire pochi mesi dopo il suo 90° compleanno. Un blog dell’Huffington Post titolò: “l’Unità scompare, le Ceneri di Gramsci restano”.

Gramsci il fondatore, il filosofo per cui la parola unità era simbolo di un giornale aperto, non di partito. Visitai il luogo del delitto ormai freddo, il grande open space silenzioso e deserto dove prima brulicavano come in un alveare le voci, i passi, i telefoni, il brusio elettrico di computer e stampanti, le idee, i libri, le carte, la semiosfera di un giornale in costruzione. “Non c’è niente di più vuoto di una piscina vuota”, ha scritto Raymond Chandler. Tranne forse un giornale spento.

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Alla festa nazionale di Milano ogni incontro è racchiuso nella formula “raccontiamo l’Italia”, secondo lo storytelling della pubblicità al governo – cosa davvero inedita in una festa dell’Unità. Ma il brand “l’Unità”, sia il giornale che la festa, è ora in stile renziano. Sorpresa: la festa di Milano non è più grande di quella di Piombino, è un terzo di quello di Reggio, non c’è nessuno stand commerciale, e un solo punto ristoro gestito dal circolo Pd di Melzo. Il motivo di tanta sobrietà non è etico, ma economico: l’affitto degli spazi è molto alto (siamo in un parco del centro). C’è un palco dove ai concerti si alternano i dibattiti, ma è come un set televisivo, occasione per lanciare battute che verranno raccolte dai tg, che siano di Renzi o di D’Alema, di Poletti o di Camusso.

È un dato che quando le feste dell’Unità erano importanti il Pci non era “di governo”, ma era vincente nella società e nella cultura e la sua visione del mondo condizionava chi era al governo. La visione del mondo e le proposte politiche del Pd che governa mostrano invece una sudditanza linguistica e culturale nei confronti della destra.

In un agiografico reportage al seguito del ministro Maria Elena Boschi, l’attuale direttore de l’Unità Erasmo D’Angelis raccontava con stile nazional-popolare quello che le foto già mostravano – il ministro tra la gente, coi cuochi degli stand come nei selfie di Renzi, mentre gira la “Ruota della Fortuna”, etc. Siamo oltre a quanto aveva scritto Baudrillard nel suo Il delitto perfetto – “la televisione ha ucciso la realtà” – perché qui è la realtà a sostituirsi alla tv. Nel format dei democratici, dove restano le friggitorie, le piste da ballo e i bomboloni caldi alla crema, ci sono soprattutto concretezza, «poche seghe mentali e tanto lavoro»; ma anche epifanie dal magico sapore democristiano, come l’elettore di destra che ringrazia il ministro Boschi per aver trovato lavoro grazie al Job’s Act, e tutti si commuovono come a Chi l’ha visto.

Eppure la festa dell’Unità, teatro o agorà che fosse, era davvero modello di passione e cittadinanza, e ancora oggi, come ha scritto Maurizio Boldrini, è segno di un “bisogno mai cancellato di socialità, di incontro e di partecipazione”. Al contrario dei selfie, in cui Renzi è così disinvolto, segno di un mondo in cui tutto è equivalente come su un grande nastro scorrevole (e pazienza se è virtuale come Matrix), le feste del passato erano fatte di odori, sapori, voci, sentimenti, cose che toccavano il cuore e la pancia. Il popolo di sinistra si consegnava a un leader il cui carisma politico e morale era a portata di ognuno. Solo un partito o un governo di sinistra può chiedere e ottenere sacrifici al popolo, notò un astuto democristiano. A patto di continuare a essere percepito di sinistra.

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Poi esistono ancora feste come quella di Sarteano, paesino in provincia di Siena, strade pulite e antichi palazzi, una biblioteca comunale e un’altra, nel centro storico, che sembra una libreria dell’usato e invece offre libri in prestito. La signora dello stand dei libri, che non è libraia ma assessore al “sociale” (istruzione, sanità, immigrati, ecc.), mi informa che quest’anno non c’è alcun dibattito, solo musica, ballo liscio, cucina e giochi per bambini. Ma proprio stasera fa eccezione: sotto la tenda dello spazio giovani, dove mi ero seduto a leggere le poesie di Wallace Stevens al suono di Maria Salvador di J-AX e altri rap, viene proiettato il film sulla resistenza partigiana in Val di Chiana e Val d’Orcia, cui segue dibattito. Alla fine del film mi accorgo che oltre agli spettatori sulle panche, moltissimi altri giovani hanno seguito, in piedi a semicerchio, la vicenda di chi si oppose al nazifascismo nella loro terra.

Lo spazio è un campo sportivo, e grazie al verde intenso delle colline dopo la pioggia che ricorda Twin Peaks, sembra una festa di comunità all’americana, priva di ideologia. Un volontario passa lo straccio per asciugare la pedana già lucida dove si ballerà il liscio, circondata di sedie colorate. I suoi gesti fanno tenerezza. L’assenza di qualsiasi tensione emotiva rende il luogo molto rilassante.

   Guardare le feste dell’Unità significa guardare la gente, non diversa da quella che si trova in spiaggia o alla stazione, anche se forse più consapevole di quella che affolla gli outlet la domenica pomeriggio. Com’è la gente, appunto, che cosa pensa, desidera, che cosa tace e nasconde nel suo dire e fare? Non lo so, e appena credo di saperlo non lo so più. Mi viene più facile dare giudizi negativi e tranchant, ma subito dopo mi accorgo che ciò che mi interessa meno sono le mie critiche, e che potrei agevolmente rovesciare i miei giudizi, scoprire l’aurora o la promessa di una nuova idea di umiltà, libertà, forse “unità”. I giovani volontari hanno voglia soprattutto di mondo aperto, di relazionarsi. Cosa significhi essere qui bisognerebbe chiederlo al ragazzino sorridente che a Firenze mi ha offerto con orgoglio l’adesivo della festa, chiamandolo “coccarda”. Me la sono appiccicata al petto, la coccarda, per farlo felice.

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