Sono di nuovo a Venezia fuori stagione, c’è il sole e cammino tra l’Arsenale e San Marco verso l’imbarco del vaporetto per San Servolo. Passo davanti alla targa di marmo sul muro dell’Hotel Gabrielli, dice che Franz Kafka soggiornò lì nel 1913 e vi scrisse molte delle lettere a Felice.
La coincidenza è blanda, la contemporaneità traccia un cerchio così vasto da contenere un numero quasi incalcolabile di eventi, ma il fatto che sia lo stesso anno in cui nacque mio padre mi colpisce, sembra che tutto o quasi ciò che è fuori si relazioni con tutto o quasi ciò che è dentro (la mia testa). Non riesco a resistere e mi fermo a pensare, cioè meglio a sognare, lì in piedi al sole, quel minuto di troppo che basta a farmi perdere il vaporetto.
A proposito di date di nascita, quindi anche di morte, e visto che ormai devo aspettare venti minuti per il prossimo battello, mi stupisco per l’ennesima volta del fatto che Robert Walser, sul quale oggi pomeriggio terrò una conferenza all’Arsenale Nuovissimo, e di cui Kafka fu un ghiotto e divertito lettore, sia morto il giorno di Natale del 1956, quando i carri armati dell’Urss invadevano l’Ungheria (e tanti in Italia uscirono dal Pci in segno di definitiva protesta), ma soprattutto quando veniva sequestrato il poema Howl di Allen Ginsberg pubblicato l’anno precedente, e posto sotto processo il suo editore Lawrence Ferlinghetti l’anno successivo. Mi colpisce cioè la possibile, dissonante relazione (più di quella eventuale tra Kafka e mio padre, nonostante lo scarto di età, visto che mio padre ebbe la vocazione dell’archivista ed è stato un impiegato, anzi un capufficio) tra i parzialmente contemporanei Robert Walser e Allen Ginsberg, tanto più che amo entrambi. Ovvero:
un uomo dell’Ottocento in bianco e nero, pervaso di un elegantissimo silenzioso pudore – come le miracolose immagini del suo corpo nella neve, morto, con ancora le tracce dei suoi passi, delicate come calligrafie giapponesi: e non a caso stasera dopo il mio intervento si inaugurerà una mostra d’arte contemporanea dedicata a Robert Walser in cui spiccano le immagini della sua ultima passeggiata domenicale, anzi natalizia, intorno al manicomio di Herisau, nel punto esatto in cui fu trovato il corpo nella neve: un lavoro di Antonio Rovaldi per il quale ho scritto, senza ancora farglielo leggere, un omaggio al suo omaggio a Walser (anche se il mio sembra, e forse è, un omaggio al Vassily Kandinsky di “punto, linea, superficie”: il corpo di Walser come un punto sul campo-superficie di neve lungo la linea del cammino);
un barbuto colorato poeta beat newyorchese del XX secolo che suona l’harmonium e recita blues con versi salvifici, considerati osceni e sequestrati, sugli hipsters che sventolano i loro genitali sui tetti e ascoltano la benzedrina sui muri, ma anche sulle “quattro nobili verità” tramandate dal Buddha, insegnando che si può essere poeti e scrivere se solo non ci si vergogna di essere se stessi, del proprio corpo soprattutto.
Allen Ginsberg scrisse alla fine del poema una pagina memorabile sul fatto che “tutto è santo”, verso che potrebbe benissimo essere una frase, possibilmente tra due virgole, di una prosa di Robert Walser (anche se forse non avrebbe aggiunto, come Ginsberg, che anche “il buco del culo è santo”). Che tutto sia, forse, santo (il forse tra due virgole è aggiunto in omaggio a Walser, naturalmente), che tutto sia in definitiva poesia, metterebbe d’accordo Walser e Ginsberg dissolvendo il loro superficiale, virtuale contrasto, mi dico guardando le onde che tremolano come se scoppiettassero di luce, e il vaporetto che arriva al pontile tra i riflessi del sole nell’acqua agitata. Un po’ meno facile sarebbe mettere insieme Walser, il Partito Comunista Italiano e i fatti d’Ungheria, tranne il fatto che si tratta di cose e persone visualizzabili tutte in bianco e nero.
Salgo sullo scafo, per la seconda volta della mattina vado all’Isoletta di San Servolo, sede per secoli di un manicomio chiuso per effetto della legge Basaglia alla fine degli anni Settanta. Ora ci sono un museo dei suoi “resti” e un archivio consultabile delle cartelle cliniche degli “alienati”, dove mi attende un’archivista per una visita guidata, e la sede della Fondazione Franco Basaglia – oltre a un bellissimo parco con sdraio sparse qui e là e strutture per ospitare convegni. Mi chiedo se dall’isola che fu dei “matti” si veda, tra le tante isolette all’orizzonte, o se meglio ancora si senta, l’isola dei “cani” di cui mi parlò una volta Christian Boltanski, quando progettò di fare lì un’installazione per la Biennale del 2010 – un’isola, mi disse, di cui ci si accorge da lontano per via del lamentoso risuonare dei latrati dei cani propagato dal vento, un abbaiare continuo che riverbera metafisico e inquietante nella nebbia e nel buio della rada.
Mi rendo conto che l’associazione tra i cani reclusi nell’isola-canile e i matti nell’isola-asilo è lugubre anche se tragicamente fondata, e mi chiedo se avrebbe rattristato o al contrario divertito, oppure entrambe le cose, uno che di manicomi se ne intendeva, Robert Walser, che a cinquant’anni scelse a ragion veduta – per quanto suoni paradossale parlare di cognizione di causa a questo proposito – scelse insomma in piena libertà di vivere nel manicomio di Herisau, in Svizzera, dove restò ventisette anni, fino a quell’ultima passeggiata nella neve – punto, linea, superficie – del Natale 1956. Un luogo, ho sempre pensato, in cui poteva sentirsi finalmente contenuto, cioè contento (è la stessa parola).
L’isola dei cani si trova dietro San Servolo venendo dalla terraferma, ma non sento da qui nessun latrato, mentre scopro invece che, curiosamente, molti matrimoni vengono celebrati qui nella chiesetta dell’isola dei matti, con seguito di pranzo all’aperto nel cortile vista mare della palazzina principale dell’ex manicomio – anche oggi se ne prepara uno, ci diciamo io e la signora degli archivi che mi fa da guida, a giudicare dal via vai dei camerieri e dagli addobbi, oltre che dal profumo di cucina che annusiamo entrambi
Guardo le ultime isolette piatte nella distesa scintillante di mare aperto e mi attraversa un’altra associazione di idee su Walser e Ginsberg, poi un’altra ancora: la seconda è che nella stessa settimana in cui condussi Damasco, una trasmissione su Radio Tre di confessioni di letture, cioè di altrettante folgorazioni nel corso della vita, avevo parlato sia di Robert Walser che di Allen Ginsberg (visto che mi folgorarono entrambi); la prima associazione era invece che anche il poeta newyorchese andò in manicomio, non alla fine ma all’inizio della sua vita di poeta, e fu anzi proprio lì che cominciò a capire la poesia interrogandosi sul senso necessariamente plurale del concetto di “realtà”, sui diversi sensi di realtà, e sulla necessità altrettanto cruciale di allargare il più possibile la coscienza.
Ecco – mi dico camminando nel parco dell’isolotto di San Servolo, privo di cani ma ricco di gatti pelosi come lo Stregatto di Alice, dall’aria leonina e un po’ fiabesca, allevati qui (ho letto) nel corso dei secoli per fronteggiare i topi, e guardando a distanza le torri e le cupole e le guglie dei palazzi detta terraferma da cui sono venuto – : il fatto che il mio percepire il mondo, i pensieri, la realtà e la fantasia, come un ininterrotto pullulare e relazionarsi di iperlink, cioè letteralmente di ponti, mi accada proprio qui, a Venezia, città dei ponti e dei collegamenti continui, non può essere un caso, ma una benedizione.
(continua)
(27 settembre 2014)
Bello questo reportage nella malinconia di latrati lontani sull’isola dei matti. San Servolo.
Grazie!
elianda c.
grazie a te!